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Si incrina il muro di omertà sulle violenze per reprimere le rivolte nelle carceri a marzo

“Così ci hanno torturato e ucciso durante le rivolte in carcere” Cinque detenuti denunciano in procura le violenze delle forze dell’ordine durante le rivolte di marzo che sono costate la vita a 13 persone. La versione ufficiale: sono morti di overdose. Sono passate poche settimane da quando è stato fissato il primo processo in Italia per tortura a carico di pubblici ufficiali, riguardo ai fatti nel carcere di San Gimignano. Dopo la denuncia, i detenuti sono stati trasferiti a Modena in isolamento. 

Ora di tortura, abuso di autorità e omissione di soccorso da parte di agenti penitenziari si torna a parlare in un esposto alla Procura di Ancona firmato da cinque detenuti, a proposito di quanto avvenuto nel marzo scorso nell’istituto penitenziario Sant’Anna di Modena e nella casa circondariale di Ascoli Piceno.

L’8 marzo, mentre l’Italia entrava nella fase più dura della pandemia, in diverse carceri italiane sono scoppiate violente rivolte a causa di una situazione generale di sovraffollamento e della sospensione di ogni attività esterna e colloquio interno. È stato uno dei capitoli più bui della storia penitenziaria italiana, con 13 decessi, di cui nove solo a Modena.

La procura modenese ha aperto un’indagine a carico di ignoti, poi sono arrivati i risultati autoptici su alcuni corpi. “La causa esclusiva dei decessi è collegabile all’abuso di stupefacenti, verosimilmente quelli sottratti dalla farmacia interna del carcere. Non sono stati riscontrati segni di violenza sui corpi”, ha sottolineato il procuratore vicario Giuseppe Di Giorgio.

Con il passare dei mesi sono però emerse nuove testimonianze che hanno delineato un quadro più complesso. Questo, mentre il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede ha continuato a ignorare la questione. Soltanto overdose? Le indagini hanno sottolineato che cinque persone sarebbero morte nell’istituto penitenziario modenese ed è riguardo a queste che l’autopsia ha evidenziato l’overdose. Quattro sono deceduti in momenti successivi, nelle carceri dove sono stati trasferiti o in ospedale.

In estate due detenuti che l’8 marzo si trovavano a Modena, poi trasferiti ad Ascoli Piceno, hanno denunciato di aver subito violenze e abusi da parte degli agenti penitenziari, aggiungendo che i detenuti spirati durante o dopo gli spostamenti non avrebbero ricevuto alcuna visita medica che avrebbe certificato l’impossibilità di compiere un viaggio nelle condizioni sanitarie critiche in cui si trovavano.

I pestaggi sarebbero andati avanti anche nei pullman e poi a destinazione e dal racconto emerge la figura del 40enne Salvatore Piscitelli, uno dei morti, “buttato dentro la nuova cella come un sacco di patate”, che “non riusciva a camminare” e “stava malissimo”.La storia di Piscitelli e dei suoi compagni è ora tornata sotto i riflettori per un esposto presentato alla procura di Ancona da cinque detenuti che hanno assistito a quei fatti e hanno deciso di denunciarli. Secondo le nuove testimonianze, Piscitelli sarebbe stato “brutalmente picchiato presso la casa circondariale di Modena e durante la traduzione” e sarebbe arrivato ad Ascoli Piceno “in evidente stato di alterazione da farmaci tanto da non riuscire a camminare e da dover essere sorretto da altri detenuti”.

“Tutti facemmo presente al commissario in sezione e agli agenti che il ragazzo necessitava di cure immediate. Non vi fu risposta alcuna. La mattina seguente fu fatto nuovamente presente che Piscitelli non stava bene, emetteva dei versi lancinanti e doveva essere visitato, ma nulla fu fatto”. L’agonia sarebbe andata avanti diverse ore, poi il detenuto sarebbe morto solo e senza cure nel letto della sua cella, nonostante “successivamente molti agenti e il garante stesso dei detenuti asserivano che il Piscitelli fosse morto in ospedale”.

C’è molta confusione in effetti su quanto avvenuto in quelle ore. La direzione e il provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria parlano di decesso in ospedale dopo il soccorso in cella, due relazioni del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria e del ministro di Giustizia confermano invece la morte in carcere. Il racconto dei cinque firmatari del nuovo esposto e quello degli altri due detenuti che hanno denunciato i fatti in estate combaciano nella gran parte delle descrizioni e dei dettagli.

L’esposto poi evidenzia altri aspetti: calci, pugni, sputi e minacce contro detenuti “in palese stato di alterazione psicofisica” che ci sarebbero stati prima, durante e dopo il trasferimento da Modena; spari ad altezza uomo, un elemento che emerge anche in un video girato durante le rivolte; visite mediche nel carcere di trasferimento che sarebbero state sbrigative, senza nemmeno far togliere i vestiti ai detenuti per verificare eventuali segni di violenza. I firmatari denunciano che né loro né altri compagni sono mai stati sentiti come persone informate sui fatti. Finora tutto si è basato sulle dichiarazioni rilasciate da agenti e direzioni penitenziarie, che negano ogni violenza o sottolineano, come ha fatto il segretario nazionale Uil-pa Gennarino De Fazio, che “se c’è stata violenza la possiamo definire legittima perché serviva per ripristinare l’ordine”.

Ora però qualcosa potrebbe cambiare. “Questo esposto potrebbe rivelarsi importante, bisogna vedere se la Procura aprirà un’inchiesta”, spiega Sandra Berardi, la presidente di Yairaiha, associazione per i diritti dei detenuti che sta seguendo il caso. “Ci troviamo davanti a una ricostruzione verosimile, che viene da persone ancora in carcere, dunque coraggiosa”.

Uno strano trasferimento Nei giorni scorsi i cinque firmatari dell’esposto sono stati trasferiti da Ascoli Piceno proprio a Modena, in un ambiente ostile a loro. “Siamo stati contattati dai familiari perché dopo il trasferimento hanno interrotto tutte le loro comunicazioni con l’esterno. Abbiamo parlato con il garante, che ha portato la questione al Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, ora le comunicazioni sono riprese”, sottolinea Berardi.

“Attualmente i cinque detenuti si trovano isolati l’uno dall’altro, da quando sono arrivati non hanno avuto neanche una coperta. Non è un isolamento sanitario perché avevano già fatto tre tamponi risultati negativi, si tratta piuttosto di un isolamento disciplinare”. Una misura dal sapore ritorsivo, dopo che sono stati riaccesi i riflettori su una serie di decessi sospetti su cui ancora non è stata fatta piena chiarezza.

Luigi Mastrodonato

da il Domani

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Bonafede deve rispondere sui 13 morti misteriosi nel carcere di Modena

Il 9 marzo 2020 il premier Conte decretò il lockdown totale, primo paese al mondo. Ci furono proteste in tutti i penitenziari italiani. Nel carcere Sant’Anna di Modena si verificarono fatti gravi e misteriosi: la tv mostrò colonne di fumo e venne riferito di scontri con le guardie, di feriti. La mattina dopo, con un’operazione militare top secret, tutti i detenuti del Sant’Anna vennero trasferiti e venne comunicato: “L’ordine regna al S. Anna”. Ma nelle 48 ore che seguirono, strani fiori sbocciarono, sparsi nelle carceri del centro e del nord Italia: erano altri cadaveri, che venivano da Modena.

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A chiunque sia interessato a conoscere la verità su una storia ignobile accaduta nella civile Italia nel funesto 2020

Il 9 marzo 2020, con un atto di grande coraggio (di cui pochi lo credevano capace), il premier Conte decretò il lockdown totale, primo paese al mondo. Purtroppo, poco o nullo interesse venne dedicato al mondo delle carceri, peraltro il più esposto alla propagazione del contagio. Risultato: in quei giorni ci furono proteste in tutti i penitenziari italiani. Le richieste, oltremodo democratiche: tamponi, colloqui con i famigliari, permessi, sconti di pena, indulto, sanatoria, amnistia.

A Foggia ci fu addirittura la breve evasione di alcune decine di detenuti. Nel carcere Sant’Anna di Modena si verificarono fatti gravi e misteriosi: la tv mostrò colonne di fumo e venne riferito di scontri con le guardie, di feriti. Filtrarono notizie di spari, un morto, due morti, tre morti. La mattina dopo, con un’operazione militare top secret, tutti i detenuti del Sant’Anna (548, la capienza era di 369) vennero trasferiti e venne comunicato: “L’ordine regna al S. Anna”.

Ma nelle 48 ore che seguirono, strani fiori sbocciarono, sparsi nelle carceri del centro e del nord Italia: erano altri cadaveri, che venivano da Modena. Alla fine, ci dissero che i morti erano tredici, tutti di Modena. Cinque in loco, otto in altre carceri. Ma come ci erano arrivati, in quelle altre carceri? Erano volati? Erano metastasi di un cancro? Era un complotto di Cosa Nostra che aveva suscitato la rivolta per ottenere l’amnistia per i suoi boss?

Dare un nome ai morti – Il lettore non mi prenda per pazzo: questa “narrazione”, che le rivolte nelle carceri fossero un piano della mafia per ottenere la libertà dei suoi boss fu la versione praticamente ufficiale del governo, ripresa da magistrati, giornali, trasmissioni televisive. Ci vollero 11 giorni perché “i 13 di Modena” avessero un nome; e non li rivelò il governo, ma Luigi Ferrarella, coraggioso giornalista del Corriere della Sera.

Due erano italiani, undici del Maghreb; tutti detenuti per reati legati alla droga, non gravi, diversi di loro erano a “fine pena”; nessuno era un boss. Compare una versione degli eventi: i detenuti hanno scassinato l’armadietto dell’infermeria e preso una bottiglia di metadone: si sono abbeverati, si sono intossicati e sono morti per overdose. Nelle poche parole che il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede dedicherà loro in parlamento, sono morti “perlopiù per overdose di metadone”. (Quel “perlopiù” dice molto, purtroppo, della moralità del ministro). A distanza di otto mesi le autopsie ancora “sono in corso”, ma i fatti di Modena sono forse uno dei pochi argomenti su cui non si litiga nel governo. E, peraltro, i contagi aumentano nelle carceri.

Invece, molte domande dovrebbero essere poste. Tutti sanno che l’overdose da metadone nell’adulto è facilmente curabile: in dotazione da vent’anni in tutte le ambulanze, e ovviamente in tutte le carceri, c’è la fiala (miracolosa) chiamata Narcan, che riporta in vita i morituri. Ma, evidentemente, non venne usata; né a Modena, né nei cellulari che trasferirono i detenuti, probabilmente ammanettati e inconsci, in carceri distanti duecento chilometri. Perché i rivoltosi vennero lasciati morire? Perché gli intossicati non vennero portati in ospedale? Gli agenti carcerari si vendicarono sui detenuti rivoltosi? Chi gestì tutta “l’operazione Modena”? L’Europa ci ha mai chiesto spiegazioni? Mi dispiace di avervi rovinato la giornata, con questa storiaccia. Non la migliore, davanti al caminetto; ma è pur sempre un racconto di Natale.

Enrico Deaglio

da il Domani

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