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Roma: vietato l’ingresso ai medici al Cie di Ponte Galeria

«Divieto di accesso ai medici». Una notizia sconcertante appresa all’ingresso del Cie di Ponte Galeria di Roma, durante una visita effettuata con un consistente gruppo consiliare della Regione Lazio alla struttura. Il fatto risale all’8 maggio, giorno successivo al suicidio di Mabruka Mimuni, la donna tunisina trovata impiccata nei bagni del centro. La direzione della Asl competente, (Rm D) aveva inviato tre medici per una visita nel centro che ricade sotto la propria competenza, ai medici è stato impedito l’accesso e il contatto con i trattenuti in base ad una affermazione «si tratta di una struttura secretata». L’attuale direttore del centro, il maresciallo della Croce Rossa, Luciano Paoloemili, dapprima smentisce, poi, messo telefonicamente a confronto con la direttrice sanitaria della Asl, si richiama alla convenzione stipulata con la Prefettura e rimanda ogni addebito al proprio superiore. La “secretazione” appare ancora più assurda se si pensa che il Cie può ospitare 364 persone, spesso necessitanti di cure e terapie e il personale della Cri scarseggia, 12 operatori per i turni diurni, 5, solo 5, per la notte. Operatori a cui spettano numerosi compiti dentro e fuori il centro, assunti con contratti a termine. Un numero insufficiente, forse anche alla base delle continue tensioni di questi mesi che hanno portato in poco tempo già a due vittime, Salah Souidani – una morte di cui ancora non sono state ufficialmente rese note le cause – e appunto, Mabruka Mimuni. Che, al di là della disumanità strutturale dei Cie in se, a Ponte Galeria regni il caos gestionale è visibile ad occhio nudo. Mura fatiscenti, sporcizia mai tolta, bagni maleodoranti, celle inagibili, segno di una manutenzione inesistente per cui la Prefettura paga però una cifra consistente, sono solo gli aspetti più visibili. Anche la gestione del centro è in regime di precarietà: la convenzione con la prefettura era scaduta il 31 marzo scorso ma non si è ancora provveduto a stipularne una nuova. Ci sono state due deroghe: la prima, durata fino al 30 aprile, ha visto il proseguio della direzione di Fabio Ciciliano, funzionario di polizia e allo stesso tempo della Croce rossa. C’è stato chi ha già denunciato l’incompatibilità dei ruoli che consentiva di sommare due emolumenti. Dal 1 maggio, fino al 31, la direzione è pro- tempore – nelle mani del maresciallo Paoloemili, diatribe e ricorsi fra Croce rossa e ministero non permettono ancora di capire se si arriverà ad un rinnovo quantomeno biennale della convenzione o se subentreranno altri enti a gestire la struttura. Ne consegue che anche il personale vive e lavora in condizioni di tensione. Un’operatrice, amareggiata per alcuni articoli letti sui quotidiani rifiuta di essere annoverata fra gli autori o i complici di maltrattamenti nei confronti dei migranti: «Io sono così di sinistra che non mi riconosco in nessun partito – afferma – ma da quando lavoro qui ho cambiato anche opinione sulle persone. Ci sono molti che mentono e molti che sono delinquenti che non dovrebbero restare in Italia. Già ne abbiamo troppi di ladri, anche liberi. Loro sono più tutelati di me che ho famiglia, se perdo il lavoro a me chi mi aiuta?». Difficile farle comprendere che il suo avversario non è il trattenuto, per quanto problematico possa essere, ma l’intero sistema in cui è inserita. Al di là dell’impegno di molti, esiste una incomunicabilità diffusa fra assistenti e assistiti, due mondi che difficilmente possono venirsi incontro. Ma il degrado si respira nelle storie raccontate dai trattenuti, un infinito cahier de doleance che nel poco tempo dell’ispezione si può soltanto intuire: c’è il ragazzo russo che dichiara di essere affetto da tubercolosi e che non dovrebbe, stare in luoghi promiscui, i tanti nati in Italia, soprattutto rom bosniaci, presi nei rastrellamenti, e che alla fine del trattenimento e all’atto della convalida dell’espulsione risulteranno in espellibili, perché il paese di provenienza non li riconosce come propri cittadini. E poi richiedenti asilo che hanno presentato ricorso dopo il diniego alla loro istanza, persone sposate con cittadini comunitari che attendono, in gabbia la propria scarcerazione, tossicodipendenti e persone soggette a gravi stress psicofisici che hanno compiuto atti gravi di autolesionismo, cittadini comunitari che, in nome della “sicurezza” sono trattenuti per il tempo necessario a sbrigare le pratiche per l’allontanamento. Sono rumeni e polacchi, non possono essere espulsi ma allontanati, rimandati a casa a spese del contribuente sapendo che in ogni momento – a meno di comprovata pericolosità sociale – possono rientrare. Difficile accettare l’idea che a pochi chilometri del palazzo che ospita il Consiglio Regionale esista un luogo simile. E la situazione pare destinata a peggiorare in tempi brevi. Si è già sparsa la voce dell’approvazione del testo di legge che proroga a sei mesi i tempi di trattenimento. E sale la disperazione:«È meglio il carcere»- mormora un ragazzone algerino. Ma un pensare diffuso si sta facendo strada e impone di vigilare prima che si compiano tragedie annunciate: «se debbo restare sei mesi mi ammazzo» dicono in molti, soprattutto fra gli uomini. Anche per questo, all’uscita dal centro, i consiglieri: Laurelli, Battaglia, Pizzo, Fontana, Mariani, hanno annunciato una interrogazione regionale in merito a tutte le problematicità emerse e manifestato l’intenzione di chiedere al prefetto di Roma di entrare al più presto, insieme alla stessa delegazione, per poter verificare formalmente quanto ieri appurato. Pochi minuti dopo una buona notizia. Per un trattenuto è stato accettato il ricongiungimento familiare con sua sorella, cittadina italiana, da oggi sarà libero. Una goccia in un oceano.
Stefano Galieni – Liberazione

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