I racconti di Ventimiglia. “Le botte dalla polizia e l’umanità della “jungle”
- maggio 30, 2016
- in migranti, testimonianze
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Straordinario reportage, di straordinario valore e intensità, dal campo profughi che si trovava, fino a ieri, 29 maggio, sotto il ponte di Via Tenda, a Ventimiglia. Sgomberato per motivi di “igiene e sicurezza pubblica” dietro ordinanza del sindaco del Pd, Enrico Ioculano.
Racconti e foto di Lia, Antonio, Nicola, Roberto. Ventimiglia, 20-21-22 maggio 2016
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Raccontano Roberto, Nicola
Perdura il campo profughi sotto il ponte della superstrada a Ventimiglia, tra Via Tenda e il fiume.
Una ventina di tende a igloo, umanità in quantità variabile, 100-200 persone. Tutti uomini, giovani, neri. Le poche donne e bambini sono ospitate da qualcuno in città. Il sole scalda, il fiume è bello.L’acqua si prende da un gruppo di taniche. Qualcuno si lava nel fiume.
Una decina di persone sedute per terra taglia verdura e la mette in un pentolone; da qualche giorno ci sono due fornelloni da campo per la cucina sociale.I profughi chiacchierano allegri. Non somigliano al cane del papa.
Nel ristorante bar la signora di Ventimiglia dice che non danno da mangiare a mezzogiorno (turismo in Liguria vedi su you tube); dice che Ventimiglia era bella quando lei era giovane; che adesso no per colpa del governo e di Alfano, che ha mandato i neri davanti al suo ristorante (dove curiosamente non si mangia), che sono poveretti ma fanno un pò brutto.
Arriva un ragazzone della Croce Rossa Italiana, propone di portare un servizio di distribuzione pasti sotto il ponte dei profughi. Viene accolto con diffidenza, gli dicono che da mangiare lo fanno quelli del pentolone.
Oggi due profughi del campo con malattie serie dovevano essere accompagnati in ospedale a Ventimiglia. All’ospedale di Bordighera nei giorni scorsi hanno cercato di identificare dei profughi malati, in spregio al divieto di legge (art. 35 c. 5 Dec. Leg.vo 286/1998), e i profughi non si fidano più.
I due malati che dovevamo portare oggi in automobile all’ospedale sono spariti. Mandano a dire che si dirigono in Francia, per andare all’ospedale lì.
Nel campo niente gabinetti ovviamente, si parla di farne alcuni tipo boy scout; ma siamo nel verde e la questione pare gestita intelligentemente, non si avvertono gravi problemi per ora.
Corre voce di uno sgombero del campo a giorni. Ci chiediamo cosa farebbe la polizia delle persone eventualmente cacciate.
Finora la polizia gestisce i corpi dei profughi portandoli all’hot spot, che è un centro di identificazione ma non di detenzione.
Dato che qui in liguria hot spot non ce ne sono, portano il profugo in Sicilia, il che per il trasportato equivale a tornare alla casella iniziale nel gioco dell’oca.
Ciò con bus ed aerei, gran spiegamento di forze per evitare resistenze.
Ovviamente poi si riparte. I poliziotti, da impiegati dello Stato, fanno pianamente ciò che stabilisce la legge anzi l’accordo di Malta del settembre 2015 (in continuità coi trattati di Rabat e Karthoum): ogni volta che fermano uno straniero diretto alla frontiera gli prendono (o tentano di prendergli) le impronte digitali. Le impronte vengono poi scannerizzate e diffuse a tutte le polizie d’Europa, col dato del fermo e di dove il profugo è stato fermato; ciò diventa l’incancellabile numero di matricola dell’essere umano che ha quel dito.
Se il nostro profugo digitalizzato viene poi fermato a Lione, dal suo dito la polizia di lì risale all’hot spot a cui è approdato nel suo viaggio, e di mano in mano (di poliziotti) viene riportato all’hot spot di partenza.
Ci sovviene lo splendido film comico-malthusiano “idiocracy” in cui il protagonista, digitalizzato all’inizio della sua avventura da un robot-sbirro, dopo essere felicemente fuggito gesticola dal finestrino dell’automobile; una delle onnipresenti telecamere riconosce il suo numero di matricola e ricomincia il suo inseguimento con ri-detenzione-finale. Fantascienza visionaria.
Ore 17, assemblea sotto il ponte. Babele di lingue, interventi cortesi e ordinati, traduzioni a raffica in arabo, italiano francese e altro a richiesta. Parole di solidarietà, amicizia, raccomandazioni a dio, paura della polizia; applausi, risate composte. Divisione di compiti, cucina, progetti di cessi.
Ieri sera sono arrivati una quarantina di profughi, hanno chiacchierato coi campeggianti, poi sono partiti chissà come per la Francia. Oggi li avevano già rimandati indietro, la polizia francese.
Raccontano Lia, Antonio, due medici
Abbiamo deciso di recarci a Ventimiglia poichè ci sono giunte varie segnalazioni sullo sgombero dei migranti dal confine e sugli atteggiamenti violenti della polizia (eravamo in contatto con “No borders” dall’anno scorso, quando fummo al confine poichè era stata chiusa la frontiera e i migranti stazionavano sugli scogli; in estate, durante il Ramadan).
Inoltre al congresso della SIMM (Società Italiana Medicina della Migrazione) abbiamo conosciuto una ragazza che con altri ha fondato l’associazione Freespot che ha lo scopo di sostenere i migranti in transito.
Siamo giunti all’accampamento informale sotto il ponte di Via Tenda, a Ventimiglia, alle 21:30 del 20/1/2016. Ci sono circa 200 persone in fila per mangiare cibo cucinato da alcuni di loro su un fornello da campo fornitogli dai solidali di No Borders. Sono tutti giovani uomini.
Ci saranno una trentina di tende e dietro, vicino a un alto muro una fila di persone lunghissima che dorme solo con un paio di coperte.
Ci dicono che alcune persone stanno molto male e hanno bisogno di assistenza immediata. Ci aiuta per le traduzioni Farrò, un ragazzo sudanese che ha attende di “fare la commissione” per la richiesta di asilo a Torino. Nel frattempo collabora con i no borders, da 10 mesi. Noi medici visitiamo tre persone con febbre e tosse.
Uno nella fila è di quelli che dormono senza tenda. Ha febbre alta con brivido, tosse, appare confuso. Lo visitiamo e gli lasciamo dell’antibiotico per alcuni giorni. I ragazzi di no borders ci dicono che hanno possibilità di portare chi sta peggio a dormire in un posto chiuso. Lui può essere uno di quelli.
L’ultimo che vediamo riferisce di avere tosse produttiva, da circa 25 giorni. Ha perso molto peso anche per essere stato in mare per dieci giorni senza quasi mangiare nulla. Come la maggior parte dei presenti, viene dal Sudan. Si trova nell’accampamento da 5 giorni. Al torace ha grossolani rumori patologici in corrispondenza del polmone destro. Raccomandiamo ai ragazzi di no borders di mantenere una certa distanza da lui. Non c’è in quel momento un mezzo per portarlo al pronto soccorso per fare raggi x del torace, quindi si programma il tutto per il giorno dopo.
Un altro ragazzo ha la scabbia diffusa gli arti e al tronco. I ragazzi di no borders hanno anche il benzoato di benzile, quindi glielo diamo e gli spieghiamo come fare il trattamento.
Andiamo a dormire in tenda anche noi come gli altri intorno a mezzanotte circa.
La mattina dopo iniziamo a sentire un pò di movimenti. I ragazzi vanno a lavarsi nel fiume. Non c’è accesso all’acqua, all’elettricità, non ci sono bagni. Chiedo a uno di loro dove vanno al bagno. Mi indica gli alberi che si trovano intorno agli argini del fiume rispondendomi: “in the jungle… it is really difficult for us, it is smelling”.
Dopo vanno a fare colazione alla Chritas. Significa che vanno a prendere lì l’unico pseudo pasto che gli viene fornito al giorno dalla Charitas, una scatoletta di tonno con un quarto di baguette, a volte un uovo, un frutto o un pezzo di colomba. Tutto il resto del cibo a cui hanno accesso deriva dall’azione di privati, associazioni, centri sociali.
Andiamo a fare colazione al bar almeno per avere accesso a qualche forma di servizio igienico.
Poi torniamo e ricominciamo a lavorare.
Intanto che Antonio fa alcune visite, Fatih, nord-sudanese di 28 anni, mi racconta la sua storia, è stato carcerato più volte nel suo paese per essere stato a lavorare in Israele per tre anni.
La storia di Fati
Fati aveva una fidanzata che voleva sposare. Nel 2012 Fati va a lavorare in Israele dopo aver imparato la lingua ebraica. Fati è sudanese. Lavora in un supermercato, in una farmacia. Guadagna. Dopo tre anni torna in Sudan per sposare la fidanzata.
La polizia lo ferma: non poteva andare in Israele, per il governo del Sudan. Sta in carcere per tre mesi. Ogni giorno gli fanno lo stesso interrogatorio: perché sei andato in Israele, sai che ci ha creato tanti problemi, abbiamo avuto tre bombardamenti; cibo in carcere solo una volta al giorno. Dopo tre mesi esce; poi viene nuovamente incarcerato perchè c’è stato un altro bombardamento da parte di Israele e si ritiene di nuovo che lui collabori con Israele.
Viene nuovamente interrogato e trattenuto alcune ore, poi rilasciato. Per queste continue carcerazioni ingiuste ritiene che ormai la sua vita in Sudan sia impossibile. Ha alcuni amici in Francia e un uomo nella polizia che è disposto ad aiutarlo. Gli dice: il tuo passaporto è ormai “wanted”, devi andare via, ma non devi più tornare altrimenti capiranno che ti ho aiutato.
Parte in autobus per l’Egitto, lì troverà un trafficante Egiziano che gli organizzerà il viaggio fino in Italia per 2.000 dollari. Dicono che ogni egiziano ha un gruppo di rifugiati (7-10), li tiene fermi in un posto (nel loro caso in una farmacia) fino al momento buono per partire. Prendono un autobus che li porta fino alla costa. Lì saranno imbarcati su una piccola barca.
Dalla piccolo barca passeranno poi a una barca molto più grande, che si trova a dieci miglia di distanza dalla costa. Lì aspetteranno dieci giorni fino ad arrivare a circa 500 persone. Provengono da Somalia, Eritrea, Sudan, Siria, Egitto. Ci sono tanti bambini e donne.
Ogni giorno ognuno beve solo mezza tazza d’acqua e mangia un piccolo pezzo di pane e basta. L’uomo che guida la barca è egiziano, sta anche lui tutto il tempo sulla barca con gli altri. La gente è preoccupata, i bambini piangono e fanno molto rumore. Arrivano in Italia in 7 giorni. Quasi giunti vengono intercettati dalla polizia italiana e spagnola. 300 su una barca e 200 su un’altra.
Loro sono stati portati a Palermo. Appena sbarcati parlano con un medico. La polizia li interroga. Se parla con la polizia, non può comunicare ne in inglese ne in arabo. Gli fanno lasciare le impronte. Lui chiede perché ma nessuno gli da risposta. Butta i documenti che gli danno nella spazzatura, pensa che sia il foglio di via. A Ventimiglia succede di nuovo. Nessuno conserva i documenti che gli danno il giorno che li fermano e gli prendono le impronte.
Lui ha provato a passare la frontiera tre volte, in treno, in autobus, a piedi. Arrivato in Francia a Nizza lo fermano, chiamano la polizia italiana, lo riportano indietro.
Qualcuno ce l’ha fatta passando per le montagne fino a Nizza, prendendo l’autobus fino a Marsiglia e arrivando poi a Parigi. Si può fare solo camminando. Bisogna camminare solo durante la notte e durante il giorno fermarsi e dormire dove ti trovi. Qualche giorno fa è riuscito ad arrivare a Monaco, camminando per sette ore. Lo hanno riportato indietro. Ora gli fanno male i piedi, quindi per un po’ non ci riproverà.
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Ci dicono che alcuni di quelli che stavano male il giorno prima sono alla Charitas, che lì c’è una stanza dove possiamo visitarli meglio.
C’è un solo medico che ci lascia con piacere il suo posto. Visitiamo lì una decina di persone. C’è un uomo che viene dal Darfur, Eltayb. Non cammina bene, ha una coscia molto gonfia e due lesioni ulcerate da cui esce un po’ di pus. Ci racconta che due anni fa in Darfur gli hanno sparato alla gamba, ha riportato una frattura del femore. La coscia è così da 4 mesi. Probabilmente si tratta di un’osteomielite. Gli spieghiamo che almeno deve andare in pronto soccorso per fare un RX. Lui ci risponde che non vuole, sua moglie è in Francia e la vuole raggiungere. Ha visto che il pronto soccorso è pieno di polizia e non si fida. Gli spieghiamo che con le difficoltà che ha a camminare non arriverà facilmente a piedi in Francia.
Dato che dobbiamo visitare ancora molte persone ci accordiamo per vederci dopo al campo e continuare questa discussione con più calma. Facciamo un altro po’ di visite. Tra questi vediamo anche il tipo con la sospetta tubercolosi. Ora comunichiamo con l’aiuto di Cristina, una dei no borders che ha imparato l’arabo in vari campi profughi dove è stata come solidale, in Palestina e in Libano.
Torniamo al campo. Ci sono un altro po’ di persone con tosse, mal di pancia. Anche Farrò, il nostro “mediatore”.
Andiamo a pranzo con un avvocato e uno psicologo venuti al campo profughi da Genova. Torniamo al campo e mettiamo a posto i farmaci che sono arrivati ai no borders. Una signora gli ha portato gli anti-ipertensivi del marito morto. Li butto tutti. Sara, una ragazza di Roma, scrive su ogni farmaco a che serve.
Chiediamo al tipo con i buchi nella coscia se ci racconta la sua storia. Prima ha un po’ di dubbi, poi dice che si fida di noi, quindi ci racconterà ( poi non succederà, perché in qualche modo riuscirà a raggiungere un luogo sicuro in Francia, si farà ricoverare lì). Nel frattempo 2-3 persone cucinano una quantità di cibo notevole.
Dopo c’è l’assemblea. Tutti i rifugiati con i no borders sotto una delle arcate del ponte. C’è un uomo che parla molto bene italiano, viene anche lui dal Sudan, sta in Italia da sette anni, viene al campo per fare un po’ da interprete. Dice che è importante che i ragazzi collaborino con i no borders, perché “nessuno ti deve portare l’acqua alla bocca”. Dice che è importante che tutti imparino la collaborazione e la convivenza.
Si provano a pensare varie strategie per fare resistenza e prendere tempo “per chi ha paura o vuole scappare” nel caso di sgombero del campo da parte della polizia. Ci sono voci sul fatto che saranno sgomberati dopo 3-4 giorni.
Qualcuno ipotizza di manifestare andando a occupare una chiesa, o davanti al consolato francese. Un ragazzo dei no borders ha parlato con un pescatore, che ha detto che il giorno dopo ci sarà una gara di pesca, per cui sarebbe stato meglio non far lavare i ragazzi nel fiume. I ragazzi si accordano per andare a lavarsi più presto e poi andare a vedere la gare di pesca, per dimostrare che “sono civili e si sanno comportare”.
La sera stessa al campo ci sono anche diverse donne eritree.
La mattina dopo parlo al telefono con Luisa Mondo della SIMM, mi chiede anche lei un report con qualche foto. Andiamo alla gara di pesca dove tutti i ragazzi si trovano. Cantano canzoni d’amore del Sudan che ascoltano da un telefono. Vincenzo, un no border di Brescia che sta lì al campo ormai da tre settimane, ha chiesto al direttore di gara di lasciargli un po’ di pesce. Sembrano d’accordo. Faccio un po’ di foto. Arriva Mussa, quello che fa un po’ il politico e dice che il presidente del Municipio è stato al campo e ha chiesto di tenerlo pulito, perché c’è stata una raccolta di firme e che il quartiere non vuole più qui le tende. Mussa gli ha chiesto di poter avere dei bagni chimici. Raccolgo la storia di Abdu, di 26 anni, del West Darfur, che mi viene a chiedere se ho l’abitudine di scrivere tutto.
La storia di Abdu Umar, 26 anni, West Darfur
“Come sai il Sudan è stato diviso in Nord e Sud. La guerra era nel sud , io ero nell’esercito. L’esercito prova a combattere la rivoluzione. Nel 2000 la popolazione vide “la luce della pace”.
Poi la guerra è iniziata in Darfur. Il governo torturava i giovani nel Darfur. Sai non ci sono ospedali, non c’è educazione, non ci sono scuole. Il governo usava questo per portarli alla guerra.
Promette un lavoro, un futuro per noi e per i nostri figli. Sono tutte bugie.
Il Darfur ha lo stesso spazio della Francia. Il governo ha diviso il Darfur in 5 stati: Nord, Sud, Est, West e Middle.
Questo è stato l’inizio della separazione del Darfur, e ha introdotto la guerra tra gli stati. Guerra tra tribù dello stesso stato per cercare di governare ciascun stato.
Poi c’era il Movimento che voleva fare un unico stato. Il governo attaccava i villaggi,
I GENGWID: sono contro il governo e contro la rivoluzione, sono come terroristi, simili a Boko Aram senza le implicazioni religiose.
Ogni tribu ha i suoi GENGWID che si attaccano a vicenda . Vanno nei villaggi , rubano e uccidono. Il governo e il movimento hanno capito che i Gengwid erano troppo pericolosi, hanno il loro esercito. Nota bene: esistono caratteristiche individuali che all’inizio facevano si che questi gruppi fossero piu’ vicini al goverono o al movimento.
Quindi il governo ha deciso che nessuno doveva avere più armi, a meno che non facesse parte del governo (2005-2008).
A domanda precisa: il prevalente apporto di armi proveniva da Israele.
In quel momento facevo parte dell’esercito governativo mentre l’amico fraterno (da noi medicato per ferite da arma da fuoco all’arto inferiore con sospetta osteomielite.) era nell’esercito rivoluzionario.
Nella sua condizione vedeva centinaia di migliaia persone morire ed io ho partecipato attivamente a tutto questo se no non sarei qui a parlare; i Gengwid diventavano progressivamente più deboli e confluirono in prevalenza nell’esercito rivoluzionario.
Il fronte rivoluzionario si divise e si formarono 3-4 movimenti contro il governo. Qualcuno voleva un unico Darfur , qualcuno un solo Sudan…
Dopo un po’ però deve tornare al campo.
Arrivano altri 2 medici e un infermiere che conosciamo per dare una mano. Facciamo altre visite.
Arriva poi un ragazzino che ci fa segno sull’orecchio destro come di uno schiaffo dicendo “police, police”. Dopo un po’ un altro mi aiuta a tradurre dall’arabo: “doctor! Questo ragazzo dice che la polizia gli ha dato uno schiaffo sull’orecchio, ora non sente più da quel lato.
Breve storia di Mustafa, 01/01/91, Sudan
Tentava di lasciare l’ Italia il 20/05/16 a piedi per recarsi in Francia , veniva riportato a Ventimiglia dalla polizia francese.
Il pomeriggio portato in caserma, costretto dalla polizia a fornire le impronte digitali si rifiutava. Per tale motivo gli veniva inferto uno schiaffo che colpendolo all’orecchio dx esitava in ipoacusia persistente e veniva colpito ripetutamente con il manganello alle gambe.
Trattenuto in caserma per la notte, la mattina successiva raggiungeva il campo.
Breve storia di Ahmed, 1996, Sudan
Come sopra, riportato indietro dalla Francia, riportato in questura. Gli chiedono di lasciare le impronte. Ci riferisce che appena si rifiuta gli danno varie manganellate sul dorso e sul collo, sul braccio destro, sulle gambe.
Mustafa e Ahmed ci dicono che la stessa cosa è successa a undici tra sudanesi, pakistani e maliani, tra i 20 e i 25 anni.
Dalla stazione arriva una famiglia con un bambino di 5 mesi e mezzo. Sono partiti dal Sudan 10 giorni fa. Sono arrivati in aereo in Egitto, sono stati portati da un trafficante alla costa, dalla barca piccola a quella grande. Ci sono 170 persone. Pagano 4000 euro per tutta la famiglia per arrivare a Taranto.
Tutte le donne con bambini viaggiano in un grosso stanzone chiuso e i padri e i ragazzi in coperta. A Taranto stanno tre giorni all’hotspot con la polizia che picchia e lascia senza acqua e senza cibo e senza possibilità di andare al bagno tutti quelli che non lasciano le impronte. Il padre della famiglia dice che avendo il figlio piccolo e la moglie ventiquattrenne si spaventa e si fa identificare. (da effimera )
“botte dalla polizia francese e umanità della “jungle” il racconto di Ilaria Navarra medico dell’ospedale San Martino di Genova
La visita, l’anamnesi, la storia
26 maggio 6.30 del mattino. Via Prè deserta e la pescheria. La vedo aperta solo quando sono in ferie. Ma oggi lavoro, anche se sono in ferie. In stazione due ragazzi con quegli occhi che si riconoscono subito. Con Maria gli chiediamo dove vanno: stesso posto, stessa ora. Finalmente arriviamo. Nel viaggio mi ero tirata giù un foglio con domande da fare; dopo l’ultima volta che sono stata a Ventimiglia sento l’esigenza di raccogliere oltre all’anamnesi, le loro storie. In stazione esercito, polizia. Faccio segno ai ragazzi di uscire a sinistra, via libera. Sorridono.
Finalmente arrivo al campo. Che voglia avevo di tornare. Tutte le sensazioni di ieri sono lontane, ora sono contentissima. Ci sono i ragazzi francesi della valle del Roya, portano cibo, fornelli, staranno con i ragazzi alla cambusa. Che belli che sono. A quell’ora al campo sono pochi, ora sono alla Caritas, mi spiegano. Vado lì così vedo anche l’ambulatorio. Tempo di fare una visita, poi chiude. L’ “anamnesi” la continuiamo fuori. 18 anni, dice, ma mi sembran meno. La tosse, la bronchite, la sua storia. Non ho antibiotici con me e lì non ce ne sono, gli dico di venirmi a cercare dopo. Poi si torna al campo. È cambiato dall’ultima volta giù al fiume. Ci sono le tende, la cucina, niente bagni, sempre la solita “jungle”. Loro però sono molti di più, anche se mi dicono che non c’è paragone rispetto allo scorso fine settimana. Ma qui è così, si transita. Sono tutte facce nuove. Questa volta anche tre donne e una pupetta di due anni, una di loro è incinta.
C’è un altro medico volontario. Posso andare a vedere un altro ragazzo che ieri è stato in ospedale. Anche per lui visita, medicazione e poi la storia di K., che per me è la cosa più importante. Ha un ascesso, è “brutto”; poi altre lesioni. Mi diche che le ha da più di un mese, da quando era in Egitto. Chiedo il permesso di fare una foto. Gli spiego che le manderò a un’amica dermatologa per un parere in più. Nessun problema. Gli dico che diventerà famoso. Ridiamo. Nel pomeriggio al campo sono sola. Faccio altre 8 visite. Custodisco i miei fogli come tesori. Li trascriverò. Stiamo raccogliendo le storie. Chiedo poi a Big One, il mio interprete di oggi, dove sono i ragazzi fermati ieri alla frontiera. Li hanno portati in ospedale.
La polizia li ha picchiati. Voglio vederli. Ne arriva subito uno. Il solito ragazzo sui vent’anni niente di visibile immediatamente. Mi dice che gli fanno male la schiena e le gambe. Lo hanno colpito lì. Mi racconta la storia, è la solita. Hanno provato ad attraversare la frontiera.
È la giornata sbagliata. Mi dice che arrivati al di là del confine la polizia francese li ha picchiati e poi passati ai colleghi italiani che li hanno rilasciati , e così poi di nuovo qui a piedi. Mi dice H. che M. in particolare è stato picchiato più forte. Chiedo a Big One dov’è. Me lo indicano, chiedo se può venire anche lui. Vedo lo zigomo gonfio, l’occhio sinistro semichiuso. Lui parla inglese. Mi racconta dei calci alla pancia e al petto metre era steso a terra. Vedo la loro tranquillità nel raccontarlo. Leggo la mia incredulità nella loro faccia alla terza volta che gli chiedo “really?”, mentre penso nella mia testa la pericolosità delle lesioni che percosse simili possono creare.
Riprendo in mano il foglio guida, mi serve adesso. Così riprendiamo. Tre visite, tre storie. H., M. ed O., compagni di viaggio, di “plastic boat”, poi di botte. Stanno bene, “a parte” le tumefazioni e le ecchimosi.
Mentre raccolgo la storia però a tratti il mio cervello si ferma. Vedo la faccia asimmetrica di M. e gli chiedo di ripetere, mi sono persa. Penso al racconto di chi li ha accompagnati al posto di primo soccorso e non voglio credere a quello che mi hanno detto. Perché i lividi si sentono benissimo, anche sulla pelle nera.
E se non li vedi, puoi sentirli: la cute lì è dura, rigonfia rispetto al resto. Non è possibile non refertare queste lesioni. Li ringrazio. Sono contenti della chiacchierata.
La giornata al campo passa, arriva la cena. Io però sto controllando che tutti quelli a cui li ho dati abbiano capito come prendere gli antibiotici, quindi li interrogo. Se lo ricordano benissimo. Rintraccio il ragazzo visitato al mattino e do una scatola anche a lui, scegliendola bene perché qui gli antibiotici sono come la manna. Nel frattempo uno di loro che non ho conosciuto mi viene incontro con due bei piatti fumanti: “doctor, doctor! Anche tu mangiare”. Maldetti, mi fanno piangere sempre alla fine.
Si fa sera. Qualche altra visita. Sono troppo stanca, questa volta niente storia. Poi l’assemblea. Anche questa volta come tre settimane fa tira una brutta aria. Oggi il sindaco si è dimesso dal partito.
Un’ordinanza di sgombero. Il piano Alfano. Bisogna parlare ai ragazzi. E allora via, a parlare agli shabaab.
È tardi, è ora di dormire. Eppure sono tanti, più di cento, anche una donna. Quanta polvere, vorrei un posto dove potermi togliere le lenti a contatto. Sono così stanca che mi addormento. Qualche applauso alla fine di un discorso mi sveglia. Tarjim, tarjim. Chiedono la traduzione arabo-italiano, poi ci sarà anche quella inglese, francese per gli altri volontari. Quest’ultimo sta rivendicando la sua intenzione di rimanere lì e chiedere il diritto alla libertà. Tante idee, è bello ascoltarli. Poi però mi chiamano. Ora hanno smesso di chiamarmi doctor, doctor; mi chiamano per nome. Uno sta male, vado. Torno che l’assemblea è finita. Chissà quanto tempo è passato. Montiamo la tenda, finalmente si dorme.
27 maggio
Ora sono in treno. Si torna a casa. Leggo il titolo del giornale. Si parla di sgomberare. Il piano Alfano va rispettato. Vogliono portarli tutti via. Chiedo a Giulia che si è deciso ieri sera. Mi dice che alla fine, sulle rivendicazioni, è prevalsa la paura e il fatalismo. Se la polizia verrà, verrà ovunque si trovano, tanto vale rimanere lì, “under the bridge”, dove almeno sei già sulla strada per scappare. Ho negli occhi le immagini delle ruspe di Idomeni, i segni delle percosse. Mi chiedo se farò in tempo a tornare. (da repubblica.it)
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