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“Progresso”: dalla pena di morte alla morte per pena

L’altro giorno mi è capitato di leggere su “Il Dubbio”, uno dei miei giornali preferiti, questa dichiarazione del magistrato, ora in pensione, Edmondo Bruti Liberati: “Il carcere, la privazione della libertà come pena, nella storia dell’umanità ha costituito un “progresso” rispetto alle pene corporali e alla pena di morte”.

Non sono per nulla d’accordo, anche perché la pena di morte e le pene corporali nelle nostre “Patrie Galere” continuano ad esistere: secondo i dati pubblicati dal Ministero di Giustizia, nell’anno appena passato 61 persone si sono tolte la vita all’interno degli istituti di pena italiani. Dalle informazioni raccolte tramite le visite effettuate da Antigone nel corso del 2020, emerge una media di 23,86 casi di autolesionismo ogni 100 persone detenute.  (Fonte: XVII rapporto sulle condizioni di detenzione, Associazione Antigone). La differenza rispetto al passato è che ora i prigionieri si fanno del male e si tolgono la vita da soli ed in questo non ci vedo nessun “progresso”.

La schiavitù, la pena di morte, la vendetta, la tortura fanno parte della cultura di ogni società, sia antica che moderna. Invece l’usanza di punire tenendo chiusa una persona in una cella per anni e anni è un fatto relativamente nuovo. Non più «il terribile ma passeggero spettacolo della morte di uno scellerato, ma il lungo e stentato esempio di un uomo privo di libertà».

Il carcere “è peggiore della morte perché più molesto, più duro, più lungo da scontare. La pena viene rateizzata nel tempo e non condensata in un momento come la morte; ed è proprio questa la sua forza ammonitrice ed esemplare”. (C. Beccaria)

Una lunga pena detentiva, o addirittura l’ergastolo, è una punizione che supera tutte le altre, la più mostruosa, così terribile che poteva essere giustificata solamente con la copertura di motivazioni religiose. Infatti, il carcere non è un’invenzione laica. Ha preso esempio dalla religione cristiana perché il carcere assomiglia molto all’inferno dei cristiani: il luogo in cui i dannati e gli angeli ribelli espiano eternamente la loro pena.

Penso che i nostri giudici, prima di condannarci, dovrebbero capire perché abbiamo sbagliato e subito dopo i nostri “educatori” dovrebbero preoccuparsi di tenerci dentro meno possibile, perché il carcere uccide più dei nostri reati.

Il carcere, anche nel migliore “mondo possibile”, è violenza, pura violenza. Il carcere non è la medicina, ma è il peggiore dei mali. Non è con il carcere o con la giustizia delle catene che si “educa”, ma, piuttosto, con l’amore. E l’amore in carcere è la cosa che manca più di tutto. Il carcere migliore è quello che ancora devono costruire.

In galera, per non diventare scemi, bisognava diventare matti perché dopo tanti anni di carcere solo la follia ti può salvare. Il carcere è la terra di nessuno e per sopravvivere a volte devi diventare ancora più cattivo, per non perdere la tua umanità e quel poco d’amore che ti è rimasto dentro. Il carcere, con i suoi artigli di cemento armato, non dilania solo la carne e le ossa dei prigionieri. Non beve solo il loro sangue e le loro lacrime, ma ne divora l’anima. Io credo che il carcere sia come una malattia: meno se ne fa, più si guarisce in fretta. La limitazione dei contatti con l’esterno, l’imposizione di norme burocratiche ottuse e spesso stupide e infantili, per anni e anni, creano dei poveri diavoli. Io credo che la galera, così com’è, sia un’istituzione totale e criminogena, perché oltre a farti perdere la libertà, la gestione della tua vita e spesso anche dei tuoi pensieri, ti spoglia della tua identità. Il carcere ti disinsegna a vivere.

Il carcere rappresenta uno strumento di straordinaria ingiustizia, un luogo di esclusione e di annullamento della persona umana: dietro la vuota retorica di risocializzazione, di rieducazione, si nasconde in realtà una vita non degna di essere vissuta.

Io non vedo nessuna giustizia nel tenere un uomo trent’anni in carcere, e spesso per sempre, ci vedo solo tanta ingiustizia; paradossalmente, ci vedo più giustizia in un’immediata fucilazione.

Qual è la pena equa? Qualsiasi pena non sarà mai giusta, né equa, in quanto pena. Però, a mio parere, ci sarebbe una pena giusta: chi commette un reato è una persona socialmente o culturalmente malata, quindi basterebbe semplicemente curarla con attenzione.

La migliore vendetta per un figlio a cui hanno ucciso il padre sarebbe pretendere che la società, o lo Stato, cambi, migliori e reinserisca nella società la persona che ha sbagliato. Sarà il senso di colpa la sua pena eterna.

 È improbabile che le persone diventino buone chiuse in una gabbia. E per i forcaioli la certezza della pena potrebbe essere anche di fare scontare la pena fuori dal carcere. Una società è giusta se prima di pretendere che non ci siano reati, pretende che non ci siano luoghi di sofferenza e d’ingiustizia…

La gente dovrebbe sapere che il carcere così com’è non ti vuole punire o migliorare, ma ti vuole solo distruggere. Io sono per l’abolizione dell’istituzione carceraria. Si potrebbero e si devono trovare altri tipi di difesa e di punizione, perché tenere una persona chiusa in gabbia è diseducativo ed è peggio del crimine che si vuole punire.

Soprattutto per gli ergastolani, il carcere in Italia è un cimitero e la cella la loro tomba.

La pena deve dare speranza, altrimenti è come un’esecuzione, una vendetta, invece la propria pena si potrebbe scontare fuori dalle mura di un carcere, facendo cose socialmente utili.

Carmelo Musumeci

 

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