«Mentre eravamo sul pullman ogni parola era una schiaffo, se chiedevi di andare in bagno ti schiaffeggiavano, bastava semplicemente che ti girassi o che provassi a parlare per essere picchiata», racconta Francesca Fabozzi. È tra i cinque italiani arrestati venerdì scorso a Sanliurfa, nel Kurdistan turco.

La delegazione era impegnata già da una settimana in un tour tra diverse realtà della società civile curda e turca legate al partito dell’Hdp, cioè il Partito Democratico dei Popoli il cui leader Selahattin Demirtas è in carcere dal 4 novembre 2016. Il partito unisce forze filo-curde e di sinistra della Turchia e porta avanti un’agenda politica che denuncia le dinamiche di gestione della politica interna dello Stato governato da Erdogan.

«Fino al 12 ottobre tutto è andato bene, le cose si sono complicate con l’iniziativa di denuncia dei bombardamenti turchi nel Rojava, nord est della Siria, che il partito avrebbe dovuto tenere quel giorno», ha raccontato ieri Luigi Botta, studente e attivista di Defend Kurdistan Torino. La polizia turca della città di Sanliurfa ha impedito lo svolgimento della conferenza stampa e gli italiani sono stati violentemente arrestati.

Dopo oltre 48 ore sono stati costretti a firmare un foglio di rimpatrio volontario ed espulsi dalla Turchia per due anni. Al momento nessun documento certifica, però, la loro detenzione. «Dal punto di vista legale poco dopo il fermo il nostro caso è stato archiviato, ma siamo stati scarcerati e rimpatriati solo dopo due giorni più tardi. La prima accusa era quella di aver fatto dei video durante un’azione di polizia, accusa smentita dopo otto ore. La seconda, mai formalizzata, di voler partecipare alla conferenza stampa», conclude Botta.

Dopo l’arresto i cinque giovani sono stati portati come da prassi in ospedale. Ma non tutti sono stati visitati. Successivamente li hanno trasferiti in una piccola caserma dove sono stati perquisiti e privati dei propri telefoni. «Durante la perquisizione dei tre uomini abbiamo sentito urla e rumori forti. Quando sono usciti abbiamo capito che li avevano picchiati», dice Lucia Troiani, anche lei parte della delegazione. In questa prima stazione di polizia erano presenti, ma per soli 20 minuti, un avvocato e un traduttore. Nelle ore successive queste figure non c’erano più. La mattina del 13 ottobre la delegazione è stata trasferita in un centro di rimpatrio, il giorno dopo in un bus per quattordici ore fino a un altro centro.

«Siamo stati più volte sottoposti a ispezioni corporali in camerini in cui non ci sono telecamere – aggiunge Botta – Lì ci hanno presi a calci e pugni». Gli attivisti tengono a sottolineare che in ogni cella del centro di respingimento c’era una bandiera turca e una dell’Ue con la scritta «progetto finanziato dall’Ue per la gestione dei flussi migratori». «Tornare in Europa ti fa sentire sicuro, ma questa sicurezza è garantita dalla complicità europea con le barbarie di un luogo in cui la gente continua a essere reclusa senza accuse reali», aggiungono gli attivisti.

da il manifesto