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Pakistan: Shagufta Kiran in carcere per “blasfemia” ormai da 19 mesi

Nelle galere pakistane c’è chi rischia la pena di morte per l’assurdo reato di “blasfemia”

di Gianni Sartori

Forse abbacinati dal riverbero delle nevi del “Terzo Polo” i nostrani turisti d’alta quota, tra l’elargizione di una manciata di medicinali (sostitutivi delle banali caramelle) e la costruzione di qualche albergo (spacciato per “rifugio”), evidentemente quando viaggiano in Pakistan non ne colgono alcuni aspetti.

Già qualche mese fa ne avevo accennato. Quando in Pakistan una donna cristiana accusata di blasfemia (ma per gli attivisti dei diritti umani di Voice for Justice si tratterebbe di un “caso inventato”) aveva dovuto trascorrere il Natale tutta sola, lontano dai suoi figli, in una piccola cella. Da allora niente è cambiato, come ci ha puntualmente ricordato Shafique Khokhar – che da tempo segue il caso – in un suo recente articolo. Rinnovando per la seconda o terza volta l’appello alla scarcerazione di Shagufta Kiran “donna cristiana e madre di quattro figli, vittima di false accuse per alcuni commenti pubblicati in una chat su un social network”.

Arrestata dalla Federal Investigation Agency (FIA) il 29 luglio 2021, sta in galera ormai da 19 mesi e il 27 marzo i giudici si sono rifiutati nuovamente di concederle la libertà su cauzione.

Un caso che fatalmente riporta alla memoria quello di qualche anno fa di Asia Bibi.

Per il suo avvocato, Shagufta Kiran sarebbe “rimasta coinvolta a causa della malafede del denunciante”. Inoltre non esiste nessuna prova incriminante che possa collegarla al presunto reato: aver diffuso materiali considerati irrispettosi dell’islamin “Pure Discussion” (un gruppo WhatsApp) durante una discussione sulla religione.

In base alla legge del 2016 sulla prevenzione dei crimini elettronici e agli articoli anti-blasfemia del Codice penale pachistano questa reato è punibile anche con la morte.

Il giorno dell’ultima udienza, nella speranza di poter trascorrere con la madre almeno la Pasqua, i suoi quattro figli stavano digiunando e pregando. Inutile dire quale sia stata la loro amarezza.

Un portavoce di Voice for Justice ha voluto esprimere tutta la sua disapprovazione per come “una donna cristiana viene facilmente presa di mira a causa delle sue convinzioni e per limitare la libertà di espressione, di pensiero, di coscienza o di religione”.

In Pakistan denunce e arresti per “blasfemia” sono in netta crescita. In genere a causa di vendette personali e dispute per la proprietà, comunque alimentati da pregiudizi di natura religiosa.

Da un rapporto del Centre for Social Justice (Centro per la giustizia sociale) diffuso l’anno scorso si ricava che “solo nel 2021 ci sono state 84 accuse. Le principali vittime sono i musulmani. La stragrande maggioranza dei casi si registrano nel Punjab”.

Nel rapporto erano stati raccolti i dati sulle accuse di blasfemia da quando è entrata in vigore nel 1987 (durante il regime militare del generale Zia ul-Huq) la modifica che impone anche la pena di morte.

Se nei primi quattro anni si erano registrati non più una ventina di casi all’anno per accuse di blasfemia, in seguitosono andati aumentando progressivamente. Arrivando a 208 nel 2020.

Sempre secondo il rapporto del Centre for Social Justice “dal 2001 al 2010 ci sono stati 708 casi in tutto, saliti a 767 nell’ultimo decennio”. Confermando che la maggioranza risultano nel Punjab.

Seguono, ma con percentuali inferiori, Sindh, Khyber Pakhtunkhwa e Islamabad.

Nel 2020 si calcolava che nel 70% dei casi gli accusati erano musulmani sciiti (i musulmani sunniti solo il 5%), il 20% ahamadi e il 3,5 % cristiani. Solo l’1%riguardava gli indù.

Percentuali confermate nel 2021. E al momento non sembra che le cose siano in fase di miglioramento. Insomma, se questa è la situazione, c’è poco da restare allegri.

Ma nel frattempo, dai compaesani impegnati in operazione della serie “aiutiamoli a casa loro” (in luoghi ancora tra i più integri e salubri del Pakistan? Ma andate in qualche campo profughi o nelle periferie degradate …) mi aspetto quanto meno una pubblica presa di posizione, un’aperta condanna per tali discriminazioni.

E se poi le autorità pachistane non dovessero più concedere i permessi per i fuori-pista e le arrampicate sulle vette “inviolate” (da bravi neocolonialisti frustrati) e i militari negare gli elicotteri per i soccorsi…?

Pazienza.

Dovrete farvene una ragione.

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