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Niger, un paese sfortunatamente (per i suoi abitanti) ricco d’uranio

Tra montagne di scorie contaminate e l’apertura di nuove miniere, quella all’uranio per il Niger appare come una maledizione. Un richiamo irresistibile per le voraci compagnie, incuranti dei guasti economici, sociali e ambientali che provocano alle popolazioni

di Gianni Sartori

La linea dell’orizzonte appare butterata da prominenze di 30-35 metri costituite da circa 20 milioni di tonnellate di scorie in gran parte radioattive. Effetto collaterale di quasi 40 anni di attività della miniera di Akouta nel deserto del Niger (quarto produttore mondiale di uranio).

Anche questa è l’Africa, fuori dai depliant e dai viaggi esotici organizzati e non. E anche dai scintillanti palazzi delle borghesie indigene (più o meno corrotte, più o meno complici dello sfruttamento neocoloniale) che sovrastano baraccopoli, discariche e periferie degradate.

L’attività si è interrotta nel 2021 quando il gruppo francese Orano (ex Areva) ha dovuto constatare l’esaurimento delle risorse. Ma solo dopo che la Comineak (Compagnie minière d’Akouta) aveva prodotto 75mila tonnellate di uranio.

La “bonifica” (eufemismo; cosa vuoi poter “bonificare” ormai) dovrebbe durare almeno un decennio, seguito da un altro di controllo ambientale (“libertà vigilata”?) e costare almeno 150 milioni di euro.

Per poi restituire all’umanità “un luogo sicuro, sano e non inquinato”. Così almeno è stato dichiarato. Auguri!

Qualche precedente.

Tutto era cominciato verso la metà del secolo scorso quando nei pressi di Arlit (nord del Niger) venne scoperto l’uranio.

Le prime società francesi a intervenire furono la SOMAIR (Société des Mines de l’Aïr, in cui l’AGIP NUCLEARE ha avuto una partecipazione azionaria, poi ceduta) e la già citata COMINAK.

In anni successivi, dopo l’acquisto della maggioranza azionaria sia della SOMAIR che della COMINAK, toccherà all’AREVA (multinazionale francese controllata dal Governo di Parigi con una quota del 90%) gestire la produzione dell’uranio in Niger. Fino a qualche anno fa in maniera sostanzialmente monopolistica, lasciando al governo nigerino solo una partecipazione di circa un terzo (ONAREM, Office National des Ressources Minieres du Niger, poi SOPAMIN Société du Patrimoine des Mines du Niger). Con scarse ricadute economiche per la popolazione.

Popolazione che in compenso ha subito e subisce tutti gli “effetti collaterali”, i danni, di tale attività estrattiva. Sia per l’impossibilità di mantenere attività economiche tradizionali (agricoltura, allevamento…), sia a livello sanitario. Così per i lavoratori esposti alle radiazioni come per gli abitanti delle zone contaminate dagli impianti.

Solo una quindicina di anni fa, nel tentativo di ridurre la morsa di AREVA,il governo nigeriano aveva concesso un centinaio di nuove licenza di esplorazione a compagnie di altri Stati (tra cui Cina, Australia, Canada, Spagna, India, Brasile…).

Le tensioni, i contenziosi tra l’azienda e le popolazioni erano, presumibilmente, tra le cause del sequestro, avvenuto nel 2010, di sette dipendenti di Areva: cinque francesi, un togolese e un malgascio. *

Al momento la principale urgenza sarebbe quella di bonificare (o almeno provarci, compatibilmente con la gravità della contaminazione) un’area vasta qualcosa come 120 ettari. Ricoperta da autentici rilievi “collinari” di oltre 30 metri costituiti da residui e rocce contaminate dall’uranio (ripeto: circa 20 milioni di tonnellate). Va ricordato che tali materiali, residui e scorie contaminati, sono esposti all’aria aperta con tutte le conseguenze prevedibili in campo alimentare e per l’acqua. Dalla compagnia, oltre alla promessa che il tutto sarà ricoperto con vari strati di arenaria e di argillite, anche la rassicurazione che “qui ci sono tassi naturali di radiazioni inferiori a quelle che si possono trovare in alcune regioni della Francia, inferiori a quelli stabiliti dalle norme del Niger e internazionali”.

Sarà…

Non tutti ne sembrano convinti in quanto si dovrà comunque vigilare per evitare che vi siano fessure, crepe e quindi fuoriuscite radioattive. Tra le molteplici “fonti di inquietudine” non va sottovalutato il rischio radon.

Quindi per i prossimi anni (decenni?) sono previsti regolari test e controlli nella città di Arlit e nelle zone circostanti dove complessivamente vivono oltre 200mila persone.

Ma intanto il saccheggio continua.

Prima ancora di aver – se non proprio bonificato – almeno ricoperto l’immondizia del passato, a un centinaio di chilometri di distanza ci si impegna per crearne altra in futuro.

Entro il 2023 la compagnia canadese Global Atomic Corporation intende portare a termine la realizzazione di una miniera per la produzione di uranio a Dasa. Localizzata nella stessa regione nel nord del Niger dove la società francese Orano (ex Areva) estraeva uranio da mezzo secolo. A Dasa la produzione vera e propria dovrebbe iniziare tra un paio di anni. A tale scopo Global Atomic e il governo nigerino hanno creato la Société des mines de Dasa (Somida) con un capitale di 121 miliardi di FCFA (circa 3 millions di euro, all’80% in possesso della società canadese, il 20% dal Niger).

Da parte di Orano anche l’intenzione di riaprire il cantiere della miniera di Imouraren (5mila tonnellate annuali di uranio) aperta nel 2009, ma poi lasciata inattiva dal 2015. Presumibilmente per l’abbassamento del prezzo dell’uranio.

In controtendenza 8almeno apparentemente) con la ripresa dell’estrazione di uranio, nel mese di marzo in Niger si è svolta la riunione preliminare del Comitato direttivo del progetto di elettrificazione rurale fotovoltaica nei dipartimenti di Keita e Illela (come informava il quotidiano Le Sahel). Progetto finanziato dall’Agenzia italiana per la cooperazione allo sviluppo (Aics) con 2,8 milioni di euro. Altri 200.000 euro dovrebbero venir concessi per l’assistenza tecnica. Recentemente a Niamey è stata aperta una sede dell’Aics (diretta da Fabio Minniti, referente, oltre che per il Niger, anche per Camerun e Tchad).

Sempre in marzo il Fondo per lo sviluppo internazionale dell’Organizzazione dei Paesi esportatori di petrolio (Ofid) preannunciava un prestito di 25 milioni di dollari a favore del Niger Solar Plant Development and Electricity Access Improvement Project (Ranaa), progetto per l’elettrificazione e le energie rinnovabili in Africa.

Prevista la costruzione di tre impianti solari in grado di produrre un totale di 40 MW nelle regioni di Maradi, Dosso e Diffa.

Va ricordato che il Niger, paese in buona parte desertico, nonostante la presenza dell’uranio (o magari anche a causa di questa presenza che attira la voracità delle compagnie) versa in gravi difficoltà dal punto di vista economico-sociale. Tra l’altro, a causa dei cambiamenti climatici e della crescita demografica (tasso di natalità del 7,6% ), va perdendo ogni anno 100.000 ettari di terre coltivabili (come ha recentemente ricordato , Mamane Wazir, ministro nigerino dell’Ambiente).

Inoltre si trova all’incrocio di consistenti flussi migratori, sia “in uscita” che “di ritorno”.

Solo tra gennaio e febbraio sono rientrate in Niger altre 5mila persone espulse dall’Algeria. Arrivando – a piedi ovviamente – ad Assamaka (regione di Agadez) in pieno deserto. Stando a quanto denunciava Msf, la situazione sanitaria “è molto preoccupante”. Sia per le alte temperature che per la presenza di discariche nella zona dove la maggior parte dei migranti si è accampata.

Nota 1: In realtà cinque dei sequestrati risultavano dipendenti di Areva solo indirettamente. Erano stati assunti da Satom, filiale del gruppo edilizio Vinci (ops: lo stesso del – fortunatamente mancato – progetto per l’aeroporto di Notre Dames des Landes, in Bretagna) che lavorava in subappalto per Areva. All’epoca il personale presente sul sito di Arlit era costituito da circa 2500 persone, di cui una cinquantina francesi. In un primo momento si era pensato che i sequestratori fossero legati ad Al Qaeda nel Maghreb. Anche perché proprio in quei giorni era giunta la notizia dell’assassinio di Michel Germaneau, un ottantenne impegnato in progetti umanitari e sequestrato nell’aprile 2010 dal gruppo terroristico. Diversa, fortunatamente, la conclusione di un altro sequestro, quello lunghissimo del pastore Jeff Woodke rapito, presumibilmente, dagli estremisti islamici del Mujao (Movimento per l’Unificazione e la Jihad in Africa occidentale) il 14 ottobre 2016 mentre si trovava in casa ad Abalak. Dopo essere stato rilasciato a seguito di laboriose trattative è tornato in libertà nel marzo 2023.

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