Si può essere felici a Rafah? Sami lo è: ha girato tutta la città e tutta Khan Yunis, per giorni, con una missione. Trovare un po’ di zinco, merce rara perché «l’ha comprato tutto il Qatar». Ci è riuscito e ha costruito una cucina.

Da qualche giorno è in funzione, sforna già 2.500 pasti caldi nel fazzoletto di costa che è al-Mawasi, 14 chilometri per uno, dove gli sfollati palestinesi dal sud sono un fiume che non si ferma mai. Sami riesce con fatica a telefonare a Meri Calvelli, cooperante a Gaza che con la sua ong, Acs, e il sostegno di reti di solidarietà italiane ha mandato giù i soldi necessari a inventarsi una cucina tra le tende di al-Mawasi.

LE TELEFONA ed è felice, perché ora ci sono quattro cuochi e 13 volontari che ogni giorno danno da mangiare a 2.500 persone. Senza gas, perché di gas nella Striscia non ce n’è, si cucina a fuoco vivo.

«Riso, verdure, lenticchie vengono distribuiti nelle tende dai responsabili degli accampamenti – ci dice Meri – così che la gente non debba accalcarsi». Le attrezzature sono state fornite dal World Central Kitchen, realtà internazionale che si occupa di sfamare chi ha fame nei contesti di povertà e disastri naturali, ora anche in quelli di conflitto.

«La cucina la gestisce Mohammad, un cuoco che aveva partecipato alle nostre formazioni, aveva anche seguito uno stage di pizza acrobatica in Sicilia». Era rientrato a Gaza poco prima del 7 ottobre con il sogno per niente celato di aprire un ristorante tutto suo. Adesso Mohammad gestisce una cucina di guerra.

Difficile dire quanti altri sfollati arriveranno ad al-Mawasi nei prossimi giorni, già adesso contarli è quasi impossibile, il flusso è continuo.

Arriveranno perché il governo israeliano non sente ragioni, nemmeno quelle dell’alleato statunitense che ritiene Rafah una linea rossa: ieri pomeriggio il primo ministro Netanyahu ha inviato una nota stampa per dire che nella città più a sud di Gaza sono operativi «quattro battaglioni di Hamas» e che «l’intensa attività richiede che i civili siano evacuati dalle zone di combattimento».

PER QUESTO, conclude la breve nota, «ha ordinato all’esercito e alla sicurezza di sottoporre al gabinetto un piano combinato per l’evacuazione della popolazione e la distruzione dei battaglioni».

A Rafah ci vivono oggi 1,4 milioni di palestinesi, due terzi della popolazione di Gaza. Tutti ad al-Mawasi non c’entrano. Dove dovrebbero essere evacuati non è ancora chiaro.

Forse si spera che «l’intensa attività» militare, che Tel Aviv definisce «un’operazione massiccia», costringa l’Egitto ad aprire le porte. Il Cairo risponde indirettamente rafforzando le barriere alla frontiera e inviando altre unità militari, riportava ieri Reuters.

Un piano non nuovo, scriveva ieri su X Itay Epshtain del Norwegian Refugee Council, ripubblicando la direttiva del 13 ottobre del ministero dell’intelligence israeliana che tracciava le linee guida per la deportazione: «1. Appello ai civili palestinesi a evacuare Gaza nord e permettere le operazioni di terra; 2. Operazioni di terra da nord a sud; 3. Strade aperte intorno Rafah; 4. Creazione di campi di tende in Sinai e città per stabilire i palestinesi in Egitto».

Ieri, a poche ore dalle dure critiche mosse dal presidente Biden, l’aviazione ha bombardato Rafah più volte. Netanyahu non ascolta Biden, figurarsi l’Onu, ritenuta la quinta colonna di Hamas (al punto che ieri lo speaker della Knesset Amir Ohana ha cancellato l’incontro con il segretario generale Guterres perché «è una causa persa»).

Le Nazioni unite e le organizzazioni internazionali da giorni si sgolano per dire che un’operazione terrestre e aerea su Rafah sarebbe un bagno di sangue, un punto di non ritorno.

«Una tragedia senza fine», l’ha definita Philippe Lazzarini, capo dell’agenzia per i rifugiati palestinesi Unrwa, alle prese con tagli selvaggi di 16 paesi occidentali (il Canada non li ha riattivati sebbene due giorni fa abbia ammesso di non aver visto prove, e di stare ancora aspettando che Israele le fornisca, sul coinvolgimento di 12 dipendenti Unrwa nell’attacco del 7 ottobre).

IERI LO HA ribadito l’Unicef, sottolineando che laggiù, a Rafah, ci sono «600mila bambini sfollati, alcuni più volte» e affamati: il livello di malnutrizione raggiunto nella Striscia non ha eguali nel mondo. Un bambino su dieci sotto i 5 anni è malnutrito, con danni enormi che potrebbero non essere mai risolti.

Sulla linea del fuoco restano gli ospedali, Khan Yunis al momento è la più colpita. Il Nasser Hospital, sotto assedio da giorni, ha visto ieri cadere 21 persone, uccise dai cecchini nel tentativo di raggiungere la clinica. Il bilancio totale dal 7 ottobre a Gaza sale a 28mila vittime (il 70% donne e bambini).

«Colpiscono ogni oggetto in movimento – spiegava Hani Mahmoud di al Jazeera – L’area intorno all’ospedale è stata trasformata in zona di combattimento». Ha poi aggiunto che un gruppo di giovani è stato preso di mira da un drone sul tetto dell’edificio, «cercavano segnale internet per comunicare con i parenti».

E POI C’È l’ospedale Al-Amal nella stessa città. Qui l’assedio va avanti da 19 giorni, in mezzo al fuoco incrociato tra soldati israeliani e miliziani di Hamas. Ieri, denuncia la Mezzaluna rossa palestinese, le forze di terra israeliane hanno compiuto un raid all’interno, dove – oltre a 200 persone tra staffe medico e pazienti – hanno trovato rifugio circa 8mila sfollati.

La diplomazia, intanto, continua nel suo lavoro. Dopo la partenza del segretario di stato Usa Antony Blinken, giovedì i ministri degli esteri di Arabia saudita, Emirati, Egitto e Giordania (invitato anche il segretario dell’Olp, Hussein al-Sheikh) hanno discusso a Riyadh del da farsi, insistendo su cessate il fuoco e riconoscimento dello stato di Palestina.

Gaza è un cumulo di macerie, nessuna offensiva precedente aveva presentato un conto tanto alto. Dodici milioni di tonnellate di macerie, stima l’Ocha, agenzia Onu per gli aiuti umanitari, solo di case civili. Significa che 650mila persone non hanno un posto dove tornare, quando la guerra finirà.