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Migranti: Stupri, torture, schiavismo. Denuncia-shock sulla Libia

La presidente internazionale dell’ong Msf Liu accusa: «L’Italia e l’Europa vogliono essere complici»

«Quello che ho visto in Libia è l’incarnazione della crudeltà umana al suo estremo». Joanne Liu, presidente internazionale di Medici senza Frontiere, strappa il velo dell’ipocrisia, della realpolitik del ministro Marco Minniti, invocata come panacea da prestigiosi commentatori e fini analisti, sui respingimenti in Libia ad opera dei libici ma con il valido contributo, di soldi e di retorica, dell’Italia e dell’Europa. Lei lo chiama «ultra cinismo».

Ma sono le immagini e le storie che racconta di uomini e donne stipati e massacrati nei lager libici, picchiati, schiavizzati, torturati «per il solo crimine di desiderare una vita migliore» – la delegazione di Msf è appena tornata dalla Libia dove ha visitato i centri di detenzione ufficiali, proprio quelli finanziati dall’Italia con il plauso europeo – «storie che mi tormenteranno per anni», dice Liu, più della lettera-appello indirizzata da Msf al primo ministro italiano Paolo Gentiloni e agli altri leader europei, che non riescono più a nascondere la realtà.

Ciò che la canadese Joanne Liu chiama con parole prive di equivoci: «complicità» con i criminali, cioè con «un modello di business che trae profitto dalla disperazione». Parole che, paradossalmente, hanno provocato commenti stizziti o minacciosi a difesa del governo soprattutto dall’opposizione di destra, da Calderoli a Romani.

Nella conferenza stampa di ieri a Bruxelles – e nel video-messaggio diffuso sui social dall’ong che non ha firmato il codice Minniti – c’è la spiegazione, documentata, di questo giudizio e delle ragioni dell’appello all’Europa a mettere in campo immediatamente un’altra strada, quella delle «vie legali e sicure» per accogliere e non inprigionare questa umanità africana in fuga.

Il premier Gentiloni ha risposto a stretto giro che si «augura» che «gli sviluppi che abbiamo avuto in queste settimane con le autorità libiche ci consentano di avere la possibilità di chiedere, e forse anche ottenere, condizioni umanitarie che sei mesi fa neanche ci sognavamo di chiedere».

L’Europa dal canto suo risponde con non meno stridente coscienza «delle condizioni inaccettabili, scandalose e inumane». «Non siamo ciechi e sordi», ribatte puntuta la portavoce della Commissione, Catherine Ray, ricordando lo stanziamento di 142 milioni di euro per assistere organizzazioni internazionali come l’Alto commissariato per i rifugiati (Unhcr) e l’Organizzazione internazionale per le migrazioni in Libia. E annunciando inoltre come la Commissione Juncker stia cercando di realizzare un meccanismo per «monitorare» l’uso dei fondi europei per addestrare la Guardia costiera libica.

A tutta questa fumoseria fa da contraltare la crudezza delle condizioni di detenzione verificate dalla delegazione di Msf. «Quando sono entrata in un centro di detenzione a Tripoli – inizia Liu – c’era una guardia, enorme, che ha spalancato la porta e ha ricacciato la gente indietro con un bastone. Un mare di persone magre, emaciate, trattate come fossero animali». «Sussurravano “Tirateci fuori da qui”. Ho ho potuto solo dire loro: “Vi sento”». E ancora: «Una donna incinta era svenuta perché costretta a stare in piedi per ore su un piede solo, sotto il sole. Mi ha detto: “La mia storia non è neanche la peggiore”. E mi ha confidato di un’altra donna incinta stuprata nella stanza accanto a quella dove è stato rinchiuso il marito dopo essere stato picchiato davanti a tutti nel cortile». Poi c’è il ragazzo arrivato in Libia dalla Guinea per studiare e lasciato talmente senza cibo nel centro da rischiare la vita per malnutrizione. «Non riusciva a guardarmi in faccia mentre mi parlava e gli scendevano le lacrime».

Msf ha scelto di visitare solo i centri di detenzione del governo di Tripoli i Detention Centres for Illegal Migration, dove l’ong ha accesso. «L’Unhcr – Jan Peter Stellem di Msf – riferisce di circa 40 centri di detenzione ufficiali, ma ci sono molti campi illegali. In questo momento lavoriamo in 8 centri di detenzione: siamo stati anche in altri, ma a volte il controllo cambia e allora bisogna rinegoziare l’accesso al centro».

La gestione dei miliziani libiche invece – come risulta anche da inchieste giornalistiche – non si può mettere in discussione.

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«Un pane per cinque e unica acqua da bere nel wc»

Nelle fabbriche della crudeltà. Ammassati e trattati come bestie, i prigionieri sussurravano agli operatori dell’ong Msf solo: «Tirateci fuori di qua»

NIGERIANA, FERMATA A TRIPOLI

Ho tre fratelli piccoli a casa e sono partita per loro. Prima stavo in un’altra prigione dove mi hanno portato gli Asmaboys (banda criminale ndr) che mi hanno catturata a Tripoli. Una settimana fa sono stata presa da un uomo libico che mi aveva detto che avrei lavorato per lui, io e altri tre uomini. Invece ci hanno portato qui, siamo stati venduti. L’Oim mi ha registrato qui con nome e foto. Non so cosa sarà di me in questo posto.

CAMERUNENSE, 28 ANNI

L’Oim ha registrato 160 nigeriani, 60 qui. Erano arrabbiati, alcuni sono stati consegnati ai contrabbandieri libici. Se paghi mille dinari libici ti rilasciano. Loro (l’amministrazione del centro di detenzione ndr) ti fanno credere che tutti vengono soccorsi in mare. Vanno per le strade e ci catturano. Ci sono sistemi paralleli, ogni guardia ha una sua attività, hanno collegamenti con i contrabbandieri. Se non hai amici tra le guardie non puoi telefonare alla famiglia perché paghi per il rilascio ndr). Se passi informazioni alle guardie, su persone che si comportano male o vogliono fuggire, cose così, allora puoi chiamare. Gli europei ci hanno preso tutte le risorse dei nostri paesi e ora che cerchiamo di andare in Europa per sopravvivere non ci vogliono far entrare. Ho cercato di avere un visto per il Canada, dopo due anni e tanti soldi ancora non l’ho ottenuto.

DONNA IVORIANA, 27 ANNI

Siamo stati arrestati per strada, portati in prigione e venduti. Una volta l’Oim ci ha fatto visita, la guardia dietro il funzionario dell’Oim ci ha fatto segno che ci avrebbe massacrato (se avessimo parlato ndr). Le guardie dicono che ci rimpatriano solo per sbarazzarsi della Mezzaluna Rossa e delle ong. In realtà ci vendono. Le donne vengono convinte a prostituirsi, ti prendono per la notte e al mattino ti restituiscono in prigione. I detenuti per un rapporto sessuale, consenziente o no, pagano cinque dinari. Le guardie dicono «taa’li» (vieni, in arabo ndr) e tu sai cosa aspettarti. Ti minacciano con le armi, ti picchiano. Una volta i detenuti maschi volevano impedire che le donne fossero portate via e sono stati picchiati. Ci sono ragazze ancora lì perché non hanno nessuno che paghi per il loro rilascio, quindi devono lavorare uscendo la sera. Dipende quanto paga il cliente. Un libico ci ha comprato, voleva 550 euro a testa per rilasciarci. Visto che non avevamo tanti soldi ci ha venduto a un altro libico.

UOMO DEL BANGLADESH, 28 ANNI

Ho passato 15 giorni in una cella accanto a quella delle donne, è stato orribile: nessun bagno, non mi hanno dato cibo per tre giorni e poi solo una pagnotta al giorno che ci veniva consegnata dai neri (detenuti con compiti di guardia ndr), nient’altro. L’unica acqua era quella del wc, eravamo in 19 nella cella e quattro si sono ammalati. Non so se sono ancora vivi. Ho una stanza a Tripoli dove sono i regali per mia moglie e a miei figli quando tornerò, potete aiutarmi a uscire?

MALIANO, 28 ANNI

Viaggiavo su un pick-up e mi hanno catturato. Prima di portarmi in prigione mi hanno preso tutto. La settimana scorsa qui sono venuti quelli dell’ambasciata della Guinea, non sappiamo perché. Ci picchiano senza motivo con bastoni e fruste. Se fai rumore, se chiedi acqua, se ti scappa la pipì, ti picchiano. Ti danno razioni da due per cinque. Se non hai denaro non puoi chiamare la famiglia. All’arresto alle 2 di notte sono entrati uomini armati col passamontagna. Hanno rufolato e preso tutto ciò che avevamo.

DONNA DEL CAMERUN 25 ANNI

Sono qui da tre mesi, prima vivevo in Algeria con due miei fratelli più grandi, lavoravo come babysitter. Ora sono incinta di otto mesi, il padre del bambino è rimasto in Algeria. Il 5 settembre volevo andare in Italia e sono partita in autobus per Tripoli. Il bus ci ha sceso in una grande casa dove uomini e donne sono stati separati, eravamo circa 50. Siamo stati lì cinque giorni. Un mattino ci hanno detto che saremmo partiti a mezzanotte. Sulla barca eravamo in 100, tutti e 50 quelli della grande casa e altri. Ma la bussola era rotta e andavamo in tondo. Dopo dieci ore è arrivata la polizia in uniforme su una barca della polizia, erano violenti, ci insultavano anche se io capivo poco o niente. Ci hanno fatto sbarcare a Zuwara dove ci hanno contato e lì mi hanno picchiata sul polso con un bastone. Non ho più passaporto ma mio fratello ha un amico a Tripoli, ho il suo numero, potete aiutarmi a uscire?

Rachele Gonnelli

da il manifesto

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