Un’emergenza non può durare trent’anni. Eppure nel 2023 l’immigrazione in Italia è ancora considerata tale. Non è un caso: è una scelta politica precisa. Su cui la destra ha costruito la propria spinta elettorale e a cui il centro-sinistra non ha voluto opporre un modello alternativo. Così l’accoglienza resta ancora un affare del ministero dell’Interno, mentre dovrebbe rappresentare un servizio sociale fondamentale. Il primo canale di inserimento dei nuovi arrivati e, perché no, di contaminazione culturale dei residenti. Un indotto capace di creare occupazione e presenza anche in territori marginalizzati e spopolati. Per farlo, come ogni intervento istituzionale, deve essere programmato. Con tutti gli attori in campo: governo, regioni, comuni, terzo settore, ricercatori, esperti, persone ospitate.

Dopo che tra il 2018 e il 2020 erano diminuiti gli sbarchi il governo Pd-5S e quello Draghi non hanno invertito la rotta. L’esecutivo Meloni, invece, ha rifiutato per mesi il dialogo e dichiarato in aprile l’ennesimo stato di emergenza immigrazione. Ha scelto di investire sui grandi centri, quelli «straordinari». Parcheggi incapaci di garantire crescita, formazione e diritti. Serbatoi di rancore e marginalità per chi è ospitato, motivo di rivalsa per chi vi abita vicino. Le immagini delle tensioni tra migranti e residenti le abbiamo già viste. Forse la destra spera di vederne ancora. Per non dover parlare di salari bassi, sanità allo stremo e riforme fiscali che favoriscono i ricchi. Per scaricare su qualcun altro le proprie responsabilità.