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Migliaia in piazza: «La libertà di Khaled riguarda tutti noi»

Di fronte a ventidue sedi Rai per lo studente italo-palestinese detenuto dalle autorità israeliane: «Come italiani ci troveremo a non poter più viaggiare in paesi ritenuti amici come Israele, dei quali si pensa di non poter interferire nelle questioni giudiziarie», dice la moglie Francesca Antinucci

di Chiara Cruciati

Mancano pochi minuti all’inizio del presidio romano per Khaled el Qaisi. Un gruppo di genitori dell’Istituto comprensivo Simonetta Salacone si arrampica sugli alberi del piccolo spazio verde che, in via Mazzini, guarda al palazzone della Rai. Appendono uno striscione: «Davanti scuola, non dietro le sbarre».

Le centinaia di persone presenti lo rivogliono a Roma, davanti alla scuola, davanti alla sua università, la Sapienza, per le strade del suo quartiere. Khaled è tante cose, come tutti: è un ricercatore, uno studente, uno traduttore, un padre e un marito. È un italiano ed è un palestinese.

Eppure il silenzio che istituzioni e parte dei media nazionali hanno fatto calare sul suo arresto e sulla sua detenzione da parte di Israele (lunga ormai un mese) pare cancellare ognuna di queste identità: «La cittadinanza di Khaled vale la metà – grida dal megafono Arianna Longo di Nonna Roma – La sua vita vale la metà».

È QUESTO il motivo che ha spinto il Comitato #FreeKhaled, lanciato dalla famiglia, a chiamare ieri a presidi di fronte alle sedi Rai di tutta Italia. Se ne sono tenuti in 22 città, da Napoli a Bologna, da Ancona a Cagliari, ricorda dal megafono Vincenzo Miliucci dei Cobas: «La Rai non deve prendere parte per Khaled o per la Palestina, non ce l’aspettiamo, ma deve darne notizia. Non ha ancora trasmesso una comunicazione su questa vicenda».

La mobilitazione dal basso, invece, continua. Ieri all’iniziativa nazionale hanno aderito tante realtà, Flai Cgil, Fiom, Amnesty, Arci, Potere al Popolo, Unione popolare, Giovani palestinesi d’Italia, Bds, il Centro Antiviolenza Donna L.I.S.A., per citarne alcune. E soprattutto ci sono tanti giovani, universitari, studenti medi superiori. Si mescolano ai volti storici dell’attivismo romano per la Palestina. Scandiscono «Khaled libero», applaudono agli interventi che si alternano dal megafono.

«QUELLO CHE dalle istituzioni italiane deve emergere è una presa di posizione netta altrimenti come italiani ci troveremo a non poter più viaggiare in paesi ritenuti amici come Israele, dei quali si pensa di non poter interferire nelle questioni giudiziarie», ci dice Francesca Antinucci, la moglie di Khaled. L’ultima volta l’ha visto il 31 agosto, al valico di Allenby, quando un gruppo di soldati israeliani l’ha ammanettato e trascinato via.

«Khaled va raccontato per quello che è, uno studente e un cittadino italo-palestinese. Le istituzioni danno molta importanza al fatto che sia palestinese e nessuna al fatto che sia italiano». Tanto che il governo continua a non prendere contatti con la famiglia, dalla Farnesina solo silenzio.

«Le modalità di detenzione a quanto pare gli sembrano accettabili – continua Antinucci – Non può vedere l’avvocato, ha subito interrogatori almeno fino al 21 settembre, è stato in isolamento fino al 14. Ora è in cella con un altro prigioniero palestinese di Jenin, nel carcere di Petah Tivka, usato in fase investigativa con interrogatori che prevedono privazione del sonno, contenzione in posizioni di stress, offese verbali, minacce psicologiche».

Simonetta Crisci li conosce bene. Da quattro decenni il suo lavoro di avvocata si lega a cause in giro per il mondo: «Khaled è stato arrestato senza che gli fosse comunicato che c’era un’indagine su di lui – racconta al manifestoNon sappiamo se questa detenzione si tradurrà in detenzione amministrativa come per altri 1.200 palestinesi. La scoprii nel 1989, la prima volta che andai in Palestina. C’era la prima Intifada, andammo a sostenere lo sciopero degli avvocati palestinesi. La detenzione amministrativa in Italia non è mai esistita, ora vogliono introdurla contro migranti e richiedenti asilo».

BATTAGLIE che finiscono per intrecciarsi, insomma. «La storia di Khaled ci deve chiamare tutti alla responsabilità di creare un movimento di opinione e di critica forte che possa incidere per una volta sulla storia di un prigioniero politico palestinese – dice Jacopo Smeriglio di Gaza FreeStyle – La sua detenzione è un monito evidente ai palestinesi in diaspora, a chi di seconda generazione e terza generazione stava ricominciando a tornare in Palestina, a conoscere le proprie radici».

«Per questo – aggiunge Jacopo – abbiamo un dovere nei confronti di tutte le compagne e compagni con cui condividiamo percorsi di strada qui in Italia e che devono poter tornare alle proprie case senza la paura di finire nei gangli del sistema detentivo israeliano. Come italiani che con il proprio privilegio vivono la Palestina e fanno progetti in Palestina è nostra totale responsabilità tutelare questi ragazzi».

La diaspora palestinese che si sente nel mirino. Ahmed gli dà voce: «L’obiettivo di Israele è mettere sotto pressione chiunque sia attivo, politicamente, culturalmente». Eviterai di tornare in Palestina, allora? «Ovviamente no. Non fermeranno il ritorno nelle nostre case».

da il manifesto

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