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“L’umanità è morta a Gaza, assieme ai bambini”. Intervista a Monica Minardi, presidente di Msf Italia

“A Gaza si opera senza anestesia. Colleghe e colleghi palestinesi cercano di salvare più vite possibile, anche se hanno perso i propri cari e dicono: sappiamo che anche noi moriremo. Senza elettricità le incubatrici si spengono, quella che lascia morire così i neonati è una umanità agonizzante. Serve un cessate il fuoco immediato” Il dramma raccontato da Monica Minardi di Medici senza frontiere

di Umberto De Giovannangeli da l’Unità

“L’umanità è morta a Gaza, assieme ai bambini”. A parlare è Monica Minardi, presidente di Medici senza Frontiere Italia.

Msf è tra le Ong più impegnate nella Striscia di Gaza, un’esperienza che non nasce oggi
Medici senza Frontiere è presente nella Striscia di Gaza e in Cisgiordania dal 1989, con progetti che, prima di questo conflitto, erano focalizzati principalmente sulla salute mentale, la salute primaria, la chirurgia ricostruttiva e quella plastica a cura di gravi ustioni al volto. Dopo gli attacchi dell’esercito israeliano in risposta al massacro di civili israeliani da parte di Hamas, i progetti si sono maggiormente indirizzati verso un’azione di emergenza per sostenere gli ospedali dove già lavoravamo. La situazione precipita tra il 12 e 13 di ottobre.

Cosa accade in quei giorni?
L’esercito israeliano ha ingiunto di evacuare la zona del nord della Striscia, inclusi gli ospedali tra cui quello di Al Awda dove noi eravamo presenti, in quel momento avevamo 22 persone internazionali, e circa 300 persone di staff, sia medico che logistico e di supporto, locale, palestinesi. Abbiamo subito denunciato questo ordine di evacuazione, crudele e illegittimo, perché si trattava di dover trasportare dei feriti, di spostare un milione di persone dal nord al sud della Striscia. Gran parte del nostro staff si è spostato a sud, mentre altri hanno deciso di rimanere lì con le loro famiglie e di continuare a lavorare in quegli ospedali. In realtà anche al sud la situazione non era e non è sicura. Le attività mediche e chirurgiche sono continuate con i colleghi palestinesi che sono rimasti negli ospedali, mentre noi richiedevamo l’evacuazione del nostro team internazionale e anche di chi lo avesse richiesto dello staff locale, la maggior parte del quale però ha deciso di restare. Evacuazione al di fuori di Gaza che è avvenuta solo l’1 di novembre.

Per quale motivo si è deciso per l’evacuazione?
Il nostro staff stesso aveva difficoltà a trovare cibo, acqua potabile, non c’erano le condizioni per lavorare in sicurezza. I team di emergenza sono riusciti a rientrare, 15 persone, prevalentemente anestesisti, chirurghi, intensivisti, con alcune persone di supporto logistico e amministrativo. Questo team di emergenza ora sta valutando la situazione per vedere come rispondere a bisogni che sono immensi. La situazione è tragica. Il diritto umanitario internazionale ha delle regole, che affermano come anche in situazioni di guerra comunque servono una protezione e uno spazio umanitario, spazi e protezione che vengono di fatto negati a Gaza.

Cosa l’ha colpita di più delle testimonianze quotidiane che avete ricevute dall’inferno di Gaza?
Ogni giorno abbiamo testimonianze dai nostri colleghi e colleghe palestinesi tremende di sofferenze disumane dei pazienti. Ci sono molti ustionati, e le medicazioni delle ustioni sono dolorosissime, e queste vengono portate avanti con molta scarsità di antisettici, disinfettanti, ma soprattutto senza farmaci sedativi. Non solo una difficoltà ad offrire cure essenziali ad un certo livello, ma anche di offrire queste cure in un modo minimamente dignitoso. Operare senza sedazione e anestesia è terribile, anzitutto per il paziente ma anche per i medici e gli infermieri. Non posso neanche immaginare la frustrazione di operare dei bambini nel corridoio, davanti ai parenti, di non avere la possibilità di accompagnare le persone in fine vita in questi momenti drammatici, di avere una mortalità molto superiore a quello che dovrebbe essere non solo in condizioni di pace ma anche in situazioni di guerra quando uno spazio umanitario viene conservato e garantito. Colleghe e colleghi stessi vivono in questa drammatica situazione. Qualche giorno fa abbiamo perso un collega, un tecnico di laboratorio morto perché era stato bombardato il palazzo in cui abitava. Voglio ricordarlo e rendergli onore. Mohammed Al Ahel è stato ucciso insieme a diversi membri della sua famiglia il 6 novembre. Mohammed lavorava per Msf da oltre due anni e si trovava nella sua casa nel campo profughi di Al Shati quando l’area è stata bombardata e l’edificio è crollato, uccidendo, secondo le testimonianze locali, decine di persone. L’esercito israeliano chiede di spostarsi in luoghi più sicuri. Ma è evidente come nessun luogo a Gaza sia al sicuro da bombardamenti brutali e indiscriminati. Neanche gli ospedali. Una situazione resa ancor più disumana da altre mancanze.

Quali?
La chiusura delle forniture: una ulteriore azione contraria a quelle regole che anche in guerra fanno sì che ci debba essere uno spazio umanitario. Noi vorremmo fare di più. Questo team che è entrato a Gaza era pronto da tempo. Non è la prima guerra in cui operiamo. Ci sono altre situazioni drammatiche, a Khartoum ad esempio e ancora in Ucraina. Quello che solitamente facciamo in questi casi, è fare uscire il team che è stato lì durante lo scoppio la guerra, anche per motivi psicologici e di stanchezza fisica, e si fa entrare un team di emergenza che ha anche competenze diverse. Questo non siamo riusciti a farlo a Gaza fino a pochi giorni fa. E’ veramente molto frustrante.

Oltre 4000 bambini morti. Si può dire che a Gaza l’umanità sta morendo?
Io penso che sia già morta. E’ morta assieme a quei bambini. Morti non solo per la mancanza di spazi sicuri e protetti, quindi per causa diretta di bombardamenti, attacchi deliberati su ospedali e strutture civili. Ma sono morti anche perché per mancanza di elettricità le incubatrici non funzionavano più. I neonati sono stati tirati fuori dalle incubatrici, e sono morti così. E’ difficile dirlo per me che non l’ho neppure sperimentato. Ma che umanità è quella che lascia morire così dei neonati. E’ una umanità in fine vita. Noi diciamo sempre che bisogna avere e dare speranza. I nostri colleghi palestinesi stanno cercando di salvare più vite possibili, consapevoli che loro stessi sono a rischio. Ci scrivono “ricordateci”. Ci dicono: siamo qui per cercare di salvare quante più vite possibile ma sappiamo che moriremo. Alcuni colleghi nelle prime settimane andavano negli ospedali pur avendo perso dieci-quindici familiari. Sono cose che solo descriverle è doloroso.

Medici senza frontiere è stata a Gaza anche quando i riflettori non erano accesi. Voi avete toccato con mano la tragedia di una “normalità” di una immensa prigione a cielo aperto che Gaza è da almeno quindici anni. In questo oscuramento di una tragedia umanitaria non c’è anche la responsabilità dei media?
Noi siamo una organizzazione medica, umanitaria, parliamo e testimoniamo delle situazioni che vediamo. Lo stiamo facendo in questa devastante escalation militare, ma lo abbiamo fatto anche quando Gaza moriva nel silenzio di una “normalità” senza speranza. Non tocca a noi puntare il dito, fare analisi geopolitiche. Resta il fatto che la mancanza di accesso alle cure mediche la dice solitamente molto lunga su quello che è l’accesso ai diritti fondamentali. E quello alla salute è un diritto fondamentale, strettamente legato alla dignità della persona. Noi parliamo, e non ci stancheremo mai di farlo, ma poi ci dovrebbe essere una disponibilità all’ascolto. E questa non c’è sempre come vorremmo. E’ importante ascoltare chi è sul campo, non solo noi ovviamente. Ascoltare chi è in contatto diretto con le situazioni aiuta a evitare slogan o interpretazioni superficiali o pregiudiziali. Il diritto alla salute è un diritto fondamentale. Ognuno di noi quando ha bisogno, quando sta male, ha diritto all’accesso alla salute. Al di là di ogni partigianeria. Quello del dolore è un momento che ci rende tutti uguali. In quel momento non c’è nessuno, sicuramente nessun medico o operatore sanitario di Msf o di altre organizzazioni, che pensa all’appartenenza politica o etnica o religiosa di chi ha bisogno di cure. E’ un essere umano, tanto basta. Quando c’è mancanza di accesso alla salute significa che il mondo dei diritti è molto ristretto.

Insieme a tante agenzie delle Nazioni Unite e altre Ong, Msf continua a chiedere un cessate il fuoco umanitario a Gaza.
Abbiamo scritto una lettera alla presidente Meloni, abbiamo scritto al Governo. Speriamo di essere ascoltati. La lettera dice proprio questo, che anche nella guerra gli spazi umanitari devono essere preservati. Chiediamo un cessate il fuoco immediato, perché questa al momento è l’unica soluzione che possa fare in modo che non si prolunghi questa perdita di vite umane, questa sofferenza assurda e indicibile. Servono dei flussi umanitari permanenti, non basta l’apertura a singhiozzo del valico di Rafah. Gli aiuti umanitari che entrano al momento sono molto inferiori a quelli che entravano prima del conflitto. Entravano 400-500 camion al giorno, al momento siamo nemmeno ad un quinto. Il cessate il fuoco è indispensabile. E’ una questione di vita e di morte per migliaia di bambini, per centinaia di migliaia di persone. Chiediamo che il Governo italiano si faccia carico e si adoperi in tutte le sedi per far sì che la risposta dei paesi europei, inclusa l’Italia, dei leader europei possa cambiare. Perché fin qui a nostro avviso la risposta è stata insufficiente, lenta. Serve una decisione chiara. E serve subito. Sono già migliaia i bambini uccisi o feriti. E questa è la tragica dimostrazione che non c’è stata una minima intenzione di proteggere gli ospedali o altri spazi civili.

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