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Lotta ai trafficanti o repressione dei profughi? Un brutto documento europeo

Nella Commissione Libe (Commissione per le libertà civili, la giustizia e gli affari interni) del Parlamento Europeo, si stanno tenendo in questi giorni gli incontri per definire un rapporto sulla Situazione nel Mediterraneo e la necessità di un approccio complessivo globale dell’Unione Europea in materia di immigrazione.

Il 19 ottobre in commissione si è esaminato un testo riguardante la lotta al traffico criminale, alla tratta di persone e al loro sfruttamento. Relatrici del Rapporto e quindi anche di questa sessione, sono la parlamentare maltese (PPE) Roberta Metsola e la collega italiana Cécile Kyenge (APSD). Il testo di questo ed altri documenti in materia sono pubblici, ne parleremo su ADIF con frequenza, hanno in comune un approccio bifronte in cui disponibilità all’accoglienza e alla protezione si equiparano con la necessità di operare distinzioni fra sommersi e salvati. Il nostro punto di vista è che alla fin fine si giunga quasi sempre a forme di compromesso che garantiscono le posizioni più reazionarie in materia incontrando solo flebili opposizioni. Il quadro introduttivo è sempre quello: solidarietà, equa condivisione delle responsabilità, gestione delle frontiere, politiche nuove in materia di visti, creazione (da tempo annunciata ma al massimo centellinata) di vie di accesso sicure e legali verso l’UE per richiedenti asilo e rifugiati, l’elaborazione di una strategia di cooperazione con i paesi terzi, lo sviluppo di adeguati canali legali per la migrazione economica, la valutazione dell’utilizzo dei fondi de settore della migrazione e l’attuazione del sistema europeo comune di asilo), occorre affrontare il fenomeno del traffico di migranti, della tratta degli esseri umani e dello sfruttamento lavorativo dei migranti.

«Sul piano giuridico- dicono in commissione-  il traffico, la tratta e lo sfruttamento lavorativo rappresentano tre fenomeni distinti, da cui derivano obblighi giuridici differenti in virtù del diritto internazionale e dell’UE. Nella pratica, tuttavia, tali fenomeni spesso si sovrappongono al punto che può risultare difficile distinguerli l’uno dall’altro. Ciononostante, i relatori ritengono che sia essenziale operare una chiara distinzione tra coloro che vengono fatti entrare illegalmente nell’UE attraverso le reti di trafficanti, coloro che sono vittima della tratta e le persone oggetto di sfruttamento lavorativo, in quanto, se è vero che le risposte politiche devono essere debitamente integrate, è altrettanto vero che esse devono essere correttamente mirate. In termini generali, il traffico illecito di migranti consiste nel facilitare l’ingresso o il soggiorno irregolari di una persona in uno Stato membro. La tratta degli esseri umani, al contrario, consiste nel reclutamento, nel trasporto o nell’accoglienza di una persona attraverso metodi violenti, ingannevoli o abusivi e a fini di sfruttamento.

Vi sono tre elementi che differenziano chiaramente il traffico dalla tratta:

1.la fonte di profitto: nel caso della tratta, il profitto deriva dallo sfruttamento della vittima, mentre, nel caso del traffico, è ottenuto dalle persone stesse, che pagano per avvalersi dei servizi dei trafficanti. Nel quadro legislativo dell’UE, conformemente alla direttiva 2002/90/CE, il traffico di migranti (favoreggiamento dell’ingresso illegale) è attualmente configurato come reato anche in assenza di un profitto economico;

2.un elemento transnazionale: la tratta può avvenire all’interno di uno stesso paese (senza valicare alcun confine) oppure mediante un attraversamento regolare o irregolare delle frontiere, mentre il traffico di migranti comporta per definizione un attraversamento irregolare dei confini internazionali;

3.la vittimizzazione: in generale, i migranti che si affidano alle reti di trafficanti danno il loro consenso (sebbene poi, nel corso delle azioni, vengano commessi atti di violenza nei loro confronti); la tratta, per definizione, implica invece lo sfruttamento e quindi la vittimizzazione della persona, il cui consenso, se mai presente, è reso privo di significato dai mezzi utilizzati per estorcerlo».

Un incipit raggelante, sembra quasi che a scrivere siano entomologi che studiano un fenomeno in laboratorio, organismi degni solo di essere classificati in casistiche in base alla quale definire ipotesi di intervento. Non persone, non storie di individui o di paesi interi di cui si rifiuta di comprendere la complessità, le tensioni, i lasciti mefitici lasciati dal colonialismo e dal neo colonialismo, dagli sfruttamenti intensivi e dalla ripartizione di aree intere del  pianeta in schemi predefiniti che non tengono conto degli uomini e delle donne che li abitano. Il problema per i relatori, che insieme rappresentano la maggioranza del Parlamento Europeo, consiste nella difficoltà di punire chi sfrutta “migranti irregolari” senza commettere reato (peccato che le leggi degli Stati non favoriscano tale pratica limitando controlli e punibilità) e l’accrescersi della superficie  di territorio da monitorare per impedire il traffico (dovuto principalmente all’espandersi di fronti di guerra e dall’impossibilità di poter accedere ad un ingresso regolare e protetto.

La soluzione sembra essere individuata nel “Piano di azione della Commissione” (27 maggio 2015) e di fatto mai risultato efficace. Di importanza vitale è per i relatori il ruolo di Frontex per: «Assistere gli Stati membri nelle procedure di identificazione effettuando uno screening degli arrivi nell’Unione: quindi raccogliere informazioni per le proprie analisi e, nell’ambito delle indagini condotte dalle autorità competenti negli Stati membri, fornire sostegno svolgendo colloqui intesi a raccogliere informazioni sulle rotte, il modus operandi e i favoreggiatori». Sempre in base al rapporto emerge come Europol abbia recentemente lanciato una propria squadra operativa congiunta “Mare” (JOTMARE) che dovrà divenire il polo di informazione UE sul traffico di migranti e sulle sue attività criminali. Di fatto l’istituzione di un gruppo di contatto delle diverse agenzie UE per rafforzare la loro cooperazione operativa e lo scambio di informazioni. Un passo avanti secondo i relatori, ma lascia perplessi l’idea che si debba creare un gruppo di contatto per agenzie che dovrebbero essere in origine coordinate. Quello che probabilmente è carente – e non per fattori casuali – è la cooperazione fra Stati membri e le agenzie, per il timore anche di dover accompagnare alle politiche di contrasto anche impegni in favore dei migranti.

Su alcuni passaggi chiave riteniamo opportuno riportare il testo integrale del Documento di Lavoro

Gli Hotspot  Nel quadro dell’approccio basato sui “punti di crisi” (hotspot) proposto dalla Commissione nell’Agenda europea sulla migrazione, Frontex, EASO, Europol ed Eurojust forniranno assistenza operativa agli Stati membri conformemente ai rispettivi mandati. In questo senso, Europol ed Eurojust assisteranno lo Stato membro ospitante nelle indagini volte a smantellare le reti della tratta e del traffico. I relatori ritengono che quello dei punti di crisi sia un buon approccio e auspicano che tali punti di crisi vengano istituiti quanto prima, in modo da fornire una concreta assistenza operativa agli Stati membri. Uno degli scopi principali dei punti di crisi è consentire all’Unione di accordare protezione e assistenza umanitaria in modo rapido a coloro che ne hanno bisogno. I relatori invitano tutte le agenzie dell’UE e gli Stati membri interessati a tenere il Parlamento pienamente informato del lavoro svolto nei punti di crisi e a fornire una valutazione dei progressi compiuti in questo ambito. I relatori sottolineano inoltre la necessità di garantire che le agenzie dell’UE dispongano delle risorse necessarie all’adempimento delle loro funzioni.

EUNAVFOR-MED (Operazione Sophia) Il 18 maggio 2015 il Consiglio ha adottato una decisione che istituisce EUNAVFOR MED, un’operazione militare dell’Unione europea nel Mediterraneo centromeridionale che intende contribuire a smantellare il modello di business delle reti criminali del traffico e della tratta di esseri umani nell’area adottando misure per individuare, fermare e mettere fuori uso imbarcazioni e mezzi usati o sospettati di essere usati dai passatori o dai trafficanti, in conformità del diritto internazionale applicabile. Dal 7 ottobre 2015, l’operazione navale dell’UE contro i trafficanti di esseri umani nel Mediterraneo è stata rinominata “Operazione Sophia” ed è passata dalla fase di raccolta di informazioni alla fase operativa. L’operazione può ora procedere, nel rispetto del diritto internazionale, a fermi, ispezioni, sequestri e dirottamenti in alto mare di imbarcazioni sospettate di essere usate per il traffico o la tratta di esseri umani. Questo tipo di operazione militare non è senza precedenti. Nel corso della riunione della commissione per le libertà civili, la giustizia e gli affari interni (LIBE) del 6 maggio 2015, l’Ammiraglio Foffi della Marina militare italiana ha citato l’esempio dell’intervento realizzato negli anni Novanta dalla Marina militare italiana, su richiesta dell’Albania, volto a rimorchiare e distruggere imbarcazioni destinate esclusivamente ad attività criminali. L’Ammiraglio ha posto in evidenza la difficoltà di intraprendere azioni simili nei casi in cui i criminali facciano ricorso a imbarcazioni che potrebbero essere utilizzate per vari scopi (come ad esempio i pescherecci). I relatori ritengono che un approccio globale all’immigrazione debba necessariamente prevedere misure volte a smantellare le attività delle reti criminali. Esprimono sostegno per DT\1076218IT.doc 5/11 PE569.810v01-00 IT gli obiettivi di questa operazione della Marina militare, che dovrebbe contribuire al conseguimento di tale obiettivo, e sottolineano la necessità di proteggere le vite umane, ponendo l’accento sul fatto che tutti gli aspetti dell’operazione dovrebbero garantire la tutela della vita dei migranti. I relatori si compiacciono del ruolo positivo svolto sinora dalle navi militari nel salvataggio di vite in mare e nello smantellamento delle reti criminali. Sono altresì dell’avviso che tali operazioni militari non dovrebbero costituire l’aspetto predominante dell’approccio globale all’immigrazione e ribadiscono che l’operazione Sophia non deve sminuire i mezzi già dispiegati nel Mediterraneo per il salvataggio di vite in mare.

Alcuni paragrafi del testo relativi alle campagne di sensibilizzazione per “informare i migranti dei rischi a cui vanno incontro nel tentativo di raggiungere l’UE” e sull’esiguità (sic) delle vie legali, lasciano basiti per la superficialità di analisi. Si scopre, e il testo sfiora il grottesco, che: «Molte delle persone che si affidano alle reti di trafficanti hanno una certa consapevolezza dei pericoli che dovranno affrontare, ma scelgono comunque di intraprendere il viaggio in quanto i rischi ad esso associati sono considerati minori rispetto a quelli che correrebbero restando». Nonostante questo i relatori sono convinti che una campagna in cui venga agitata la prospettiva del rimpatrio, in assenza di protezione umanitaria, possa garantire un effetto dissuasivo. Questo per i relatori è l’approccio “giusto”.

Nella consapevolezza, basata sui dati Unhcr che, solo alla fine del 2014 il numero degli sfollati nel pianeta era stimato a 59,5 milioni di persone, l’approccio dei relatori si sposta sui dati forniti da Frontex.

L’agenzia parla di “attraversamenti irregolari delle frontiere UE” ed anche in questo caso l’allarme è per un raddoppiamento dei numeri: 280 mila rispetto ai 140 mila dell’anno precedente. La causa va certamente ricercata nell’inasprirsi del conflitto siriano e nella situazione del Corno d’Africa ma, ad avviso di chi scrive, anche nel riesplodere di conflitti neanche considerati come dell’impatto provocato dalla necessità di utilizzare la cosiddetta Balkan Route.

Due le risposte fornite: da una parte rendere reale i canali di ingresso regolare per migranti, come suggerito dal Relatore speciale ONU sui diritti umani, dall’altra quella di aprire ancora canali sicuri e legali di accesso al sistema di asilo europeo. Misure necessarie per combattere i trafficanti ma con quali modalità? Quando? Con quali limitazioni? Arduo saperlo.

Ma per i relatori acquistano sempre più centralità le Strategie di Rimpatrio per coloro che, a seguito di una valutazione individuale della domanda di asilo, sono dichiarati non ammissibili a beneficiare della protezione in Europa.

Parlano di priorità di rimpatri volontari rispetto a quelli forzati, di condizioni di sicurezza da rispettare per le persone rimpatriate, trattamento umano e dignitoso. E qui il testo diviene a nostro avviso impervio.

Da una parte ci si riferisce ad una riunione risalente al 9 settembre 2015 in cui la Commissione ha presentato una proposta di regolamento per istituire una lista comune di “paesi di origine sicuri”. Poi si dice che la provenienza da uno di questi paesi terzi non può costituire di per se la necessità di esaminare adeguatamente le singole domande di protezione internazionale presentate da cittadini di tali paesi. Nella prassi attuata in questi giorni accade il contrario: a molti cittadini provenienti da paesi considerati sicuri (ad esempio la Nigeria) non viene neanche permesso di presentare la domanda. Direttamente all’arrivo in quelli che non sono ancora Hotspot a molti è stato consegnata direttamente una notifica di respingimento. Spesso il ricorso contro tale provvedimento non riesce a fermare i rimpatri. Nelle disposizioni che si stanno emanando in Italia poi, si contravviene direttamente a tale principio, partendo dal fatto che la divisione concreta fra chi resta e chi viene cacciato è strettamente quanto non unicamente connessa alla nazionalità. Unica nota positiva del documento in tal senso è una critica agli Stati membri dell’UE che respingono i migranti a cui non è stata data opportunità di chiedere asilo. Si chiede di prendere misure, ma sembra che questa sacrosanta richiesta sia più rivolta verso chi costruisce barriere e schiera forze di polizia per impedire comunque di toccare il proprio territorio che verso chi utilizza sistemi meno accentuati.

Il documento insiste sulla necessità di cooperare con i paesi di origine e di transito.  Si dice che con alcuni paesi tale cooperazione è impossibile (quelli in cui è in atto una guerra civile o manca un governo funzionante o “accettato”) questo significa, se le parole hanno un senso che tale collaborazione è invece auspicabile con le peggiori dittature, (cfr Eritrea) dove il governo è subito o con paesi i cui standard di democraticità andrebbero quantomeno messi in discussione (qui la lista è lunga e riserva sorprese). Si tratta dell’esito prevedibile del Processo di Khartoum. Il tutto avendo ben chiaro che paesi di origine e di transito non hanno ancora aderito al protocollo addizionale della convenzione ONU contro la criminalità organizzata transnazionale per combattere il traffico di migranti, o non lo hanno attuato pienamente. Accanto a questi – e sono gli stessi relatori ad affermarlo – si chiede una valutazione dei sistemi di asilo nei paesi terzi indicati: «il loro sostegno a favore dei rifugiati e la loro capacità e volontà di lottare contro la tratta e il traffico di esseri umani attraverso i suddetti paesi». A questi paesi si “chiede” di fare ciò che finora non hanno voluto fare, garantire protezione internazionale in loco per diminuire il numero di coloro che si rivolgono ai trafficanti. Alla fin fine fra paesi in guerra, paesi che non firmano gli accordi, paesi che non garantiscono protezione internazionale, il numero degli Stati con cui stringere accordi di cooperazione dovrebbe essere esiguo. Ma i relatori chiedono di far prevalere il “realismo” e gli interessi, credo in ordine decrescente di UE, paesi terzi, migranti. In questa chiave andrebbe letto quanto nel rapporto non compare, come ad esempio il “Progetto Junker” fatto proprio dalla Commissione Europea che permette di destinare in un anno circa 1 miliardo di euro alla Turchia in cambio di un controllo delle frontiere e un sostegno a rispedire i profughi provenienti da Pakistan, Bangladesh e Afghanistan, considerati evidentemente paesi sicuri e rispondenti ai criteri sopraelencati.

Ampio spazio è dedicato nel documento di lavoro all’aumentare l’efficacia delle risposte nell’ambito del diritto penale, per quanto riguarda la lotta ai trafficanti. Oltre al tentativo di comprendere la reale composizione delle organizzazioni dedite a tali reati, (un elenco onnicomprensivo delle modalità di associazione criminosa) si valuta: « l’introduzione di sistemi che consentano alle vittime della tratta e del traffico di esseri umani di farsi avanti e contribuire a un’efficace azione penale nei confronti dei responsabili, senza temere di essere a loro volta perseguiti penalmente». In Italia simili disposizioni legislative esistono già ma si fatica ad applicarle. Si aggiunga che il problema non è impedire che le “vittime” vengano perseguite penalmente quanto garantire a queste persone, protezione, sicurezza e il diritto di restare in Europa. Di positivo il fatto che si ritiene non criminalizzare chi favorisce assistenza umanitaria a quanti ne hanno bisogno.

Secondo il documento è poi necessaria una lotta contro lo sfruttamento lavorativo: contrastare gli abusi, tutelando maggiormente le vittime. Anche qui, al di là di condivisibili principi generali e di generiche dichiarazioni di intenti con riferimenti alla stessa Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, ci si rende conto che chi sfrutta la manodopera migrante raramente incorre nel rischio di essere individuato e/o perseguito penalmente. Ci si rende conto che chi lavora ed è in condizioni di irregolarità teme di denunciare gli sfruttatori per il timore di essere espulso, chi è regolare teme di perdere la misera fonte di reddito, ci si rende conto che occorrerebbero maggiori ispezioni nei luoghi di lavoro e che sarebbe di aiuto un intervento per informare chi lavora dei diritti da esigere. Ma poi c’è timidezza nell’affermare che la denuncia dovrebbe garantire permessi di soggiorno e permane l’ambiguità di un termine, ormai entrato nella legislazione italiana ma che sembra godere del successo in Europa, “grave sfruttamento”. Ovvero lo sfruttamento è perseguibile quando è “grave” peccato che comprendere quando e come questo si verifichi attiene a criteri di discrezionalità assai poco consoni ad una istituzione. «Perseguire efficacemente i datori di lavoro che commettono abusi e, dall’altro proteggere le vittime di tale sfruttamento».

Conclusioni

Ascoltando la discussione che c’è stata in commissione, (in streaming) sembra di poter dedurre che fra le due correlatrici l’approccio sia nettamente diverso ma che alla fine abbiano prevalso in gran parte le posizioni di Metzola. Cècile Kyenge ha quantomeno espresso le proprie riserve sull’efficacia delle campagne di dissuasione, si è espressa sugli hotspot unicamente dicendo che “non sono la soluzione” e ha approvato le proposte relative alle agenzie sottolineandone soprattutto il ruolo di intelligence. Temi su cui invece Metsola ha ampiamente impostato la propria linea, valorizzandone il ruolo che è fondamentalmente di carattere repressivo. Ma su imprese come EUNAVFOR-MED e i rimpatri, fra le due relatrici sembra essersi registrata una forte convergenza evidenziata particolarmente nel testo portato, anche se all’ultimo momento, in Commissione. Fra i vari interventi particolarmente duro quello di Ignazio Corrao EEFD-M5S che ha aspramente criticato il sistema hot spot, inutile se non si rivede il regolamento Dublino e che rispetto al tema “trafficanti” ha affermato: «Se una legge mi vieta di cercarmi una vita migliore in un altro paese e qualcuno è disposto ad aiutarmi in cambio di denaro, l’unica cosa da condannare, in questo caso, è la legge».

Stefano Galieni da a-dif.org

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