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Le legalizzazione del metodo Ferrulli

Da oggi in poi dovremo chia­marlo «metodo Fer­rulli». Si tratta di un modello mar­ziale, di un pron­tua­rio tecnico-agonistico o, piu sem­pli­ce­mente e bru­tal­mente, di un sistema di immo­bi­liz­za­zione della per­sona sot­to­po­sta a fermo o arre­sto: e prende il nome dall’uomo di 51 anni — Michele Fer­rulli, appunto — morto il 30 giu­gno del 2011, in via Var­sa­via a Milano. Si può arri­vare a pre­ve­dere che il «metodo Fer­rulli» verrà inse­gnato nei corsi di for­ma­zione presso le scuole per agenti di poli­zia e per carabinieri.

Secondo il pub­blico mini­stero della pro­cura di Milano, Gae­tano Ruta, quella tec­nica di fermo con­si­ste nella seguente pro­ce­dura: la per­sona viene costretta in «una pro­lun­gata posi­zione prona»: e viene eser­ci­tata, in «quat­tro con­tro uno», una «vio­lenza gra­tuita e non giu­sti­fi­cata» ai danni di «una per­sona bloc­cata a terra» e che «invoca aiuto».

L’esito pos­si­bile («pre­te­rin­ten­zio­nale») del «metodo Fer­rulli», sem­pre secondo il pro­cu­ra­tore Ruta, è il seguente: «Se io butto a terra una per­sona e infie­ri­sco, posso far­gli molto male e a que­sta per­sona può venire un infarto, anche se è una con­se­guenza non certo prevedibile».

La corte di Assise di Milano ha deciso diver­sa­mente. Quella tec­nica di immo­bi­liz­za­zione non ha avuto alcun ruolo nel deter­mi­nare la morte di Michele Fer­rulli fer­mato per «disturbo delle occu­pa­zioni o del riposo delle persone».

Dun­que è legit­timo che gli ope­ra­tori della pub­blica sicu­rezza agi­scano come hanno agito a Milano, e non solo a Milano. Per­ché que­sto è il punto più vero e più dolente. Il «metodo Fer­rulli» va con­si­de­rato un vero e pro­prio metodo pro­prio per­ché asso­mi­glia in modo impres­sio­nante a una tec­nica abi­tuale, a un sistema ope­ra­tivo col­lau­dato, a un modello di inter­vento spe­ri­men­tato. Il fer­mato viene bloc­cato a terra, i polsi amma­net­tati die­tro la schiena e tre o quat­tro uomini che gli gra­vano addosso con tutto il pro­prio peso. Ne deriva una com­pres­sione tora­cica, che può deter­mi­nare l’asfissia o l’infarto. E’ acca­duto così, con tutta pro­ba­bi­lità, nelle vicende che hanno por­tato alla morte di Ric­cardo Rasman, Fede­rico Aldro­vandi, Bohli Kayes, Ric­cardo Maghe­rini e chissà di quanti altri, rima­sti ano­nimi e caduti nell’oblio.

Ho par­lato più volte col capo della poli­zia Ales­san­dro Pansa e col coman­dante gene­rale dei cara­bi­nieri Leo­nardo Gal­li­telli. Entrambi, in forma diversa, si dicono impe­gnati a ela­bo­rare un pro­to­collo che fissi pre­scri­zioni e vin­coli, limiti rigo­rosi e cau­tele severe per le pro­ce­dure del fermo. Evi­den­te­mente, oggi, quel pro­to­collo non c’è. E oggi la prassi, la con­creta moda­lità di azione, la tec­nica gene­ral­mente adot­tata cor­ri­spon­dono in modo sini­stro al «metodo Fer­rulli». Quello che, come ha solen­ne­mente affer­mato la corte di Assise di Milano, «non sussiste».

Articolo di Luigi Manconi da ilmanifesto.info del 4 luglio 2014

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