Le indagini sulla morte di Stefano Cucchi furono sbagliate
- gennaio 16, 2015
- in malagiustizia, malapolizia, tortura, violenze e soprusi, vittime della fini-giovanardi
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Le motivazioni della sentenza di appello che ha assolto tutti i dodici imputati, nel processo per la morte di Stefano Cucchi, rappresentano una conferma di quanto avevamo sempre sostenuto e di quanto, con grande dignità, avevano segnalato Ilaria Cucchi e la sua famiglia. Il problema era nelle indagini.
Quando non si conoscono gli atti di un procedimento non è corretto trarre delle conclusioni categoriche ma, grazie alle motivazioni della sentenza, è possibile svolgere alcune considerazioni di fondo.
La prima: Stefano Cucchi non è morto per il freddo. Scrivono i giudici di appello: «Le lesioni subite sono necessariamente collegate ad un’azione di percosse e comunque ad un’azione volontaria», il che come giustamente ha commentato il Presidente della Corte d’Appello di Roma Luciano Panzani, significa che «qualcuno lo ha picchiato o forse spinto ma non si è procurato le lesioni da solo». Quanto precede costituisce un primo elemento di ineludibile chiarezza, che non può essere trascurato nella ricerca della verità.
La seconda considerazione: in questi processi non è facile fare emergere la verità. Indagare sugli apparati dello Stato è, talvolta, complicato per atteggiamenti omertosi e per un malinteso senso di appartenenza a una Istituzione. Si rifiuta il controllo e la critica esterna per il timore di una delegittimazione della struttura alla quale si appartiene e perché ci si sente dalla parte del bene e della ragione nei confronti di chi è deviato e per questo non merita rispetto.
La terza: sforzo e tensione investigativi non sempre sono appropriati e adeguati per le ragioni indicate in precedenza.
La quarta: la dignità delle persone e i diritti dei più deboli non sempre vengono considerati quando si è sottoposti al controllo e alla custodia della pubblica autorità. Eppure, custodire significa sorvegliare e vigilare allo scopo di preservare l’essere umano nella sua dimensione fisica e psichica, ciò che uno Stato democratico dovrebbe sempre essere in grado di garantire.
La quinta: in questa vicenda è stata riaffermata l’importanza e l’imprescindibilità del giudizio di appello, che qualcuno vorrebbe eliminare. Si è assolto chi non aveva responsabilità certe e si è fornita indicazione per nuovi spunti di indagine. Il doppio giudizio di merito riduce la possibilità di errori e consente di avvicinarsi maggiormente alla verità.
Un’ultima riflessione merita la necessità di introdurre, in tempi brevi, il reato di tortura che deve essere però reato proprio, ovvero che possa essere commesso solo dal Pubblico Ufficiale o dall’Incaricato di Pubblico Servizio e che si concentri su di una condotta qualificata dall’esito della inflizione di una intenzionale sofferenza fisica o morale a chi venga privato della libertà personale. Tale prospettiva, lungi dall’intento di colpevolizzare, come taluno ritiene, in modo indiscriminato le forze di Polizia, ne esalterebbe l’autorevolezza quando ne venga correttamente esercitata la funzione.
L’Unione delle Camere Penali Italiane è in genere contraria alla ipertrofia legislativa e alla creazione di nuove norme penali, ma in questo caso, il reato di tortura rivelerebbe la consapevolezza da parte dello Stato che certi fatti avvengono e che non possono essere tollerati.
Beniamino Migliucci – Presidente dell’Unione Camere Penali – da il manifesto
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