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L’alfabeto di un mondo diverso

“Il viaggio umano nel mondo cominciò in Africa. Da lì i nostri avi intrapresero la conquista del pianeta. I diversi cammini fondarono i diversi destini, e il sole ebbe il compito di assegnare i colori. Adesso noi donne e noi uomini, arcobaleni della terra, abbiamo più colori dell’arcobaleno del cielo; ma siamo tutti africani immigrati. Perfino i bianchi più bianchi vengono dall’Africa. Forse ci rifiutiamo di ricordare la nostra origine comune perchè il razzismo produce amnesia, o perchè ci risulta impossibile credere che in quei tempi remoti il mondo intero fosse il nostro regno, immensa cartina senza frontiere, e le nostre gambe fossero l’unico passaporto richiesto” (Eduardo Galeano, Specchi. La vera storia del mondo)

In un recente articolo , Gustavo Esteva ha scritto che “le parole sono le porte e le finestre della nostra percezione. La nostra esperienza del mondo dipende dalle parole che usiamo”. Occorre ammetterlo: quando ragioniamo di migrazioni il rischio di trovarci con porte e finestre sbarrate è alto.

Cosa avvelena la nostra percezione dei processi migratori in corso? Naturalmente le responsabilità dei media sono enormi perché sono loro a decidere cosa (e come) rendere visibile e cosa nascondere. Ma abbiamo anche un altro problema, da cui conviene cominciare: il linguaggio che utilizziamo ogni giorno per parlare di migranti e di migrazioni è piuttosto inquinato. Non si tratta di una questione filologica, ma di espressioni e concetti che alludono a significati molto diversi tra loro. Si tratta di riconoscere quel po’ di Trump che, purtroppo, è sempre presente in ognuno di noi.

Ci sono, ad esempio, parole che dovremmo mettere in discussione e in alcuni casi abbandonare quanto prima. “Multicultura” è una di queste, perché rimanda all’idea che le culture siano totalità chiuse e immodificabili nel tempo: in realtà, lo scambio, la contaminazione, l’ibridazione culturale – come hanno spiegato, tra gli altri, Annamaria Rivera, René Gallissot, Mondher Kilani in L’imbroglio etnico – sono qualcosa di permanente, sono la regola, tanto più nell’epoca del web e dei social network che accelerano le contaminazioni e le relazioni tra persone di angoli diversi del mondo. Ognuno di noi è plurale, non riducibile mai alla sola identità religiosa, nazionale, etnica perché quelle che chiamiamo identità personale (così come quella che chiamiamo cultura) è in primo luogo un processo. Anche il progetto migratorio, in fondo, ha quasi sempre un inizio e una fine: allora perché continuare a usare l’etichetta “immigrato” alludendo a persone che vivono in alcuni luoghi ormai da tempo?

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Una parola ancora più tossica è diventata oggi “etnia”: se infatti consideriamo i gruppi etnici entità chiuse costruite soltanto su legami di sangue allora etnia è un eufemismo per dire razza.

L’alfabeto antirazzista e interculturale non ama altre espressioni: “emergenza immigrazione” (è evidente che siamo di fronte a fenomeni permanenti, perfino in Italia l’immigrazione ha ormai oltre trent’anni di storia), integrazione (concetto che presuppone qualcosa a cui adeguarsi, senza dare importanza a reciprocità e a contaminazioni), per non parlare della distinzione scivolosa, strumentale e poco oggettiva tra “migranti economici” e “rifugiati”. Perfino l’espressione “diritti umani”, troppo spesso presentata come universale, è figlia di uno sguardo sul mondo, quello occidentale, e andrebbe dunque utilizzata con questa consapevolezza.

Di certo il nostro immaginario è condizionato dal racconto quotidiano dei media meanstream. Giornali e tv accompagnano facilmente un articolo dedicato all’immigrazione con l’immagine di barconi in mare. Eppure pochi ricordano che la maggior parte dei migranti giunge in Italia non dal Mediterraneo e non tramite i barconi. Intanto l’idea che si in atto una vera invasione è sempre più diffusa: quanti di noi sono consapevoli che la in Italia ci sono poco più di 5 milioni di migranti e in Germania 7,5 milioni? Quanti media ricordano che la percentuale dei migranti sul totale della popolazione in Italia è inferiore a quella di Germania, Regno unito e Spagna? E ancora: quanti media indagano e descrivono quello che accade ai migranti, vittime del caporalato, nella Piana del Sele (Salerno), a Sabaudia (Latina), a Palazzo San Gervasio (Potenza), nella Piana di Gioia Tauro (Reggio Calabria) o nella ricca provincia di Cuneo? Del resto sono quei media che nei titoli delle proprie notizie di cronaca riportano l’eventuale origine di chi ha compiuto un reato quando questo è una persona di origine migrante. Sono quei media che si guardano bene dal raccontare cosa accade in questi mesi ai migranti in Libia piuttosto che in Turchia.

Un esempio interessante con cui viene alimentata una percezione distorta delle migrazioni, ma anche di quello che si muove attorno ai migranti, è il recente caso della Danimarca. A differenza dell’odiosa autorizzazione al sequestro dei beni a chi migra, decisa dal governo danese (commentata su Comune da Bruno Amoroso in La guerra dei ricchi è cominciata), finita su tutti i grandi media, quello che è accaduto negli ultimi mesi a Copenaghen e dintorni non è diventato notizia: migliaia di persone comuni hanno cominciato a disobbedire alle leggi e a fornire ai rifugiati letto caldo, via clandestine per raggiungere la Svezia, indumenti e spesso anche chiavi per una casa, tutto in modo informale e spontaneo. Si tratta, come ha spigato Phil Wilmot in Salvare di nascosto i rifugiati, di strumenti ritagliati dai ricordi della Seconda Guerra mondiale, quando migliaia i danesi portarono di nascosto alla salvezza centinaia di famiglie ebree.

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Anche il caso del Baobab a Roma merita attenzioni: in questo caso giornali e tv si sono occupati ogni tanto di questa straordinaria esperienza di “ribellarsi facendo”, di accoglienza autogestita (da migranti e volontari appoggiati da organizzazioni religiose e non, centri sociali…), anche per i diversi sgomberi. Tuttavia la vera notizia non sembra emersa: quanti a Roma sanno che quelli del Baobab, in circa un anno e mezzo, hanno accolto qualcosa come 60.000 migranti transitanti, tutto senza alcun sostegno dalle istituzioni? Non c’è dubbio: bisogno far di tutto perché Roma organizzi da subito un sistema di accoglienza dignitoso per i migranti transitanti, come accade in molte altre grandi città europee, ma l’importanza di questa esperienza è proprio l’aver realizzato qualcosa che un anno e mezzo fa tutti pensavamo fosse impossibile. La storia del Baobab dimostra, ancora una volta, che ciò che non vuol fare un’istituzione potrebbero cominciare a farlo le comunità locali. Il cambiamento non si delega.

Un’altra fantastica vicenda di “ribellarsi facendo”, a proposito di migranti, resta quella delle Las Patronas: da venti anni a Gudalupe, in Messico, un gruppo di donne lancia ogni giorno cibo e acqua nelle buste di plastica a chi viaggia come clandestino con la “Bestia”, il treno merci che percorre tutto il Messico fino agli Stati Uniti, treno noto anche per le violenze subite dai migranti.

La percezione distorta del fenomeno migratorio, infine, sembra nascondere un’altra grande trasformazione sociale in corso. Scrive Franco La Cecla (Lotte: un patrimonio occidentale?): “La questione della lotta oggi non si pone in chiave di militanza, ma di condizione, di situazione effettiva: un emigrante è per sua stessa natura un agente di cambiamento e provoca intorno a sé dei cambiamenti”. Per questo ha senso mettere da parte i grandi media e accompagnare in tanti modi differenti questo cambiamento, ha senso moltiplicare le occasioni nelle quali le persone, al di là della loro origine, possano viaggiare per conoscere territori, persone, lingue (bisognerebbe promuovere una campagna con i gruppi attenti ai temi della decrescita, “più viaggi di persone meno di merci…”) e altre occasioni in cui le persone possono incontrarsi, mangiare insieme, conversare, giocare. L’alfabeto di un mondo nuovo, senza confini, è tutto da scrivere, ma ha bisogno di spazi e tempi dedicati alla lenta costruzione di relazioni sociali profondamente diverse.

Gianluca Carmosino da Comune-Info

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