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La voce del cannone: se il giornalismo si fa sponsor dell’industria bellica

L’acredine di alcuni editorialisti dei principali quotidiani italiani nei confronti del movimento pacifista

di Alessandro Canella da Radio Città Fujiko

Già ai tempi dello scoppio della guerra in Ucraina avevamo provato a spiegare l’acredine di alcuni editorialisti dei principali quotidiani italiani nei confronti del movimento pacifista, l’accusa di essere “amici di Putin” rivolta a coloro che rifiutavano la logica bellica e l’invio di armi come soluzione al conflitto. La risposta che avevamo trovato stava tra le pieghe societarie degli editori. In particolare, in un articolo intitolato “Editori con l’elmetto” avevamo ricostruito (con grande facilità, a dire il vero) le partecipazioni in società nel settore della difesa e militare dell’editore del Gruppo Gedi, che possiede testate come la Repubblica e la Stampa.

In quell’occasione avevamo anche precisato che non necessariamente gli affari dell’editore rappresentavano un condizionamento esplicito dei giornalisti di quei quotidiani. Tuttavia sono stati, nei mesi successivi, gli addii o le prese di posizione dei cdr, ad esempio rispetto al conflitto a Gaza, a confermare il clima pesante che si respira nelle redazioni e i condizionamenti che le proprietà esercitano più o meno direttamente su chi, per mestiere, dovrebbe raccontare i fatti.

Il giornalismo al servizio dell’industria bellica: il Gruppo Gedi e la vetrina ai fabbricanti d’armi

Oggi possiamo dire che un altro velo è caduto o un’altra maschera è stata gettata. Al punto che quotidiani con una storia nel campo progressista si fanno esplici sponsor dell’industria bellica e del complesso industriale militare.
In questo senso, infatti, va letto l’appuntamento previsto per questo pomeriggio alle 16.00 e intitolato “Il ruolo della ricerca militare nello sviluppo economico italiano”. L’incontro è inserito nel ciclo “Italia 2024: Persone, Lavoro, Impresa”, la piattaforma di dialogo con i massimi esponenti del mondo delle istituzioni, della finanza e dell’impresa, promossa da PwC Italia e gruppo Gedi.

In un articolo pubblicato da la Repubblica si può leggere un’introduzione in cui viene esaltato il fatturato dell’industria bellica italiana e, già dal titolo, si sostiene che essa abbia un ruolo nello sviluppo economico del nostro Paese.
Ma è il parterre dei relatori a lasciare senza fiato. Non si tratta, infatti, di un confronto fra posizioni diverse, in particolare tra chi con la guerra fa affari e chi la ripudia, né si offre il microfono al mondo accademico che protesta per ragioni etiche relative alla ricerca, ma l’iniziativa già dalle premesse si configura come un grande spot ai fabbricanti d’armi.
Nello specifico, all’incontro parteciperà il ministro della Difesa Guido Crosetto, il direttore di la Repubblica e direttore editoriale del Gruppo Gedi Maurizio Molinari, il presidente e amministratore delegato della Fabbrica D’Armi Pietro Beretta spa Franco Gussalli Beretta, Alessandro Grandinetti, Clients & Markets Leader di PwC Italia, Cesare Battaglia, Partner PwC Italia, Aereospace Defence & Security Leader, moderati dal vicedirettore dell”HuffPost Alessandro De Angelis.

«Poco fa definivo Repubblica il nuovo “Bollettino dell’industria militare”: che non era un’esagerazione da disarmista pacifista, ma una constatazione – ha commentato su Twitter Francesco Vignarca, portavoce della Rete Italiana Pace e Disarmo – Basta vedere questo appuntamento e i suoi “ospiti” (e il rilancio di questi dati di parte falsati)».
Di nuovo, rispetto al passato, c’è uno schieramento esplicito di queste testate giornalistiche a favore dell’industria militare e, di conseguenza, della guerra. A meno che qualcuno non pensi che si fabbrichino armi per tenerle in una teca.

L’orientamento dell’opinione pubblica verso posizione belliciste, però, non avviene solo sui quotidiani. Il colosso tecnologico statunitense Google ha licenziato 28 dipendenti che avevano preso parte ad uno sciopero di 10 ore negli uffici dell’azienda a New York e Sunnyvale, in California, contro la cooperazione con il governo e le forze armate israeliane. Lo riferisce il quotidiano “New York Post”, che cita una nota aziendale. I dipendenti licenziati contestavano in particolare un contratto da 1,2 miliardi di dollari ottenuto da Google, noto come “progetto Nimbus“, per la fornitura al governo e alle forze armate israeliane di servizi web, di cloud computing e di intelligenza artificiale.

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