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La probabile risposta al terrore: più postdemocrazia

La strage a Charlie Hebdo ripropone l’eterno tema dei metodi di autodifesa che una democrazia può/deve mettere in campo per difendere se stessa e i suoi cittadini dagli attacchi terroristici, che siano di massa (come l’11 settembre 2001) o mirati (come il 7 gennaio 2015). La tentazione è la solita e cioè realizzare uno “stato d’eccezione”, quindi misure di polizia straordinarie, limitazioni della privacy e delle libertà dei cittadini, controlli più stringenti su potenziali oppositori e così via. Fino all’ipotesi estrema – è il caso del post 11 settembre – dell’aggressione militare, che accompagnò e non sostituì provvedimenti come il Patriot Act negli Stati Uniti e altri simili introdotti in Europa. Il tutto, alla fine, contraddicendo i fondamenti di ciò che si pretende di difendere dall’aggressione esterna.

La strage di Parigi è un grande choc, ma sotto il punto di vista della “risposta democratica al terrore” non trova un terreno vergine. Patriot Act e norme analoghe sono ancora in vigore e le democrazie occidentali – nessuna esclusa – vivono da tempo una sorta di stato di eccezione permanente. Che si somma alla crisi di legittimità degli stati, esautorati dalla finanza transnazionale e dalla tecnocrazia collegata, oltre che sfiancati dalla recessione che mette in discussione il benessere acquisito nei decenni scorsi da milioni di cittadini, esacerbando nel frattempo le disuguaglianze.

Anche su questo terreno la “risposta democratica” è stata di tipo regressivo. Alla sfiducia popolare, espressa fra l’altro nella diserzione di massa dalle urne, si è replicato concentrando i poteri, acuendo la spinta leaderistica, governando per decreto. I parlamenti sono delegittimati sia dal basso (sfiducia popolare), sia dall’alto (i leader li scavalcano e li mortificano). L’astensione di massa è osservata con indifferenza, lo stesso momento elettorale, quando sembra portare in direzioni sgradite alle oligarchie che guidano il mondo, suscita insofferenza, vedi il caso greco di fronte al possibile successo di una formazione di sinistra.

Non c’è quindi da essere ottimisti. La manifestazione di Parigi, con milioni di persone in piazza, non spingerà gli Stati nazionali e gli oligarchi che li sorvegliano a immaginare una risposta che preveda “più democrazia, più partecipazione, più accoglienza” e tanto meno “più eguaglianza e meno guerre”, cioè una risposta progressiva e attenta alle radici dell’insofferenza, diciamo pure dell’odio, che covano in quelle parti di mondo che in questi anni hanno subito l’arroganza armata degli “esportatori di democrazia” e nei ghetti urbani in cui sono relegate le “vite di scarto” (Bauman docet) prodotte dal sistema economico e politico oggi dominante.

Dobbiamo aspettarci nuove leggi speciali, altre mutilazioni degli spazi di libertà, sempre maggiori concentrazioni di poteri e un discorso pubblico che sotto la retorica dei “nostri valori”, della “libertà d’espressione fondamento della nostra civiltà” e via dicendo, terrà chiuse le porte a chi sta fuori: che siano le “vite di scarto” già escluse dal sistema di diritti e di consumi di stampo europeo, oppure le persone che arrivano da fuori, magari in fuga dalle guerre in corso nel Vicino e nel Medio Oriente o dall’Africa sub-sahariana.

In uno degli innumerevoli commenti pubblicati dai quotidiani dopo la strage a Charlie Hebdo, un giornalista moderato come Marcello Sorgi (sulla Stampa) non ha esitato a evocare la lotta al terrorismo condotta in Italia negli anni Settanta, fino a legittimare la pratica della tortura: “Questo esagerato ricorso al garantismo – che in passato, va ricordato, ha convinto i governi francesi a ospitare e a rifiutarsi di consegnare alcuni dei nostri peggiori terroristi latitanti – non ha niente a che vedere con la lotta al terrorismo. La quale”, ha scritto ancora Sorgi, “ovunque, dove è praticata con convinzione e con risultati, semmai richiede una riduzione delle garanzie e metodi polizieschi non sempre condivisibili, ma alle volte necessari, come le torture di alcuni fiancheggiatori che in Italia portarono all’individuazione della prigione del generale americano Dozier sequestrato dalle Br (per cui alcuni agenti speciali italiani sono stati condannati), e in Usa sono servite ad arrivare al rifugio pakistano di Osama bin Laden (sebbene la Casa Bianca abbia dovuto risponderne, riconoscendole in qualche caso inutili o esagerate).

Ecco su quale terreno si dipanerà la discussione pubblica nelle settimane e nei mesi a venire, appena si sarà diradata la retorica del “Je suis Charlie”. Viviamo da tempo in un’epoca di “post democrazie”, come le definì qualche anno fa Colin Crouch, e la netta sensazione è che nelle élite europee sempre meno si creda davvero nei valori democratici sbandierati nei giorni dell’emozione e dei funerali, e si ripieghi anzi sotto le coperte dell’autoritarismo. È un declino morale, oltre che politico, destinato a produrre altre cupe tempeste.

Viene in mente l’amara constatazione del poeta William Butler Yeats: “I migliori non hanno convinzioni mentre i peggiori difendono le proprie con ardore”.

Lorenzo Guadagnucci da Micromega

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