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La mia Africa

Davvero Italia e Africa sono legate da solide e profonde relazioni che affondano le loro radici in una storia di dialogo e comprensione reciproca? Io ho in mente tutt’altro.

di Marco Sommariva*

Ieri mattina, durante la pausa caffè, ho sentito alcuni colleghi senegalesi parlare fra loro di Italia, Africa, dialogo e comprensione e così, incuriosito da quella che a me pareva un’incongruenza, ho chiesto loro qual era esattamente l’argomento; cellulare alla mano, mi hanno mostrato il link dove, a firma dell’attuale Ministro degli Esteri – Dott. Antonio Tajani –, avevano letto che “Italia e Africa sono […] legate da solide e profonde relazioni che affondano le loro radici in una storia di dialogo e comprensione reciproca”.

Forse per il mio viso incredulo – scusate ma, durante la pausa caffè, specie “noi” bianchi, si parla di tutt’altro, ahimè! –, mi hanno spiegato che erano arrivati a quel link dopo aver letto diversi articoli dove si raccontava come la situazione africana stesse mutando da qualche anno, come fosse aumentata l’influenza di Cina e Russia con l’arretrarsi di quella americana e occidentale, come i tagli della presidenza Trump agli aiuti allo sviluppo avessero aperto nuovi spazi per Arabia Saudita, Qatar ed Emirati Arabi.

Ho ringraziato, salutato e poi ho trascorso ore a chiedermi se davvero Italia e Africa fossero legate da solide e profonde relazioni che affondano le radici in una storia di dialogo e comprensione reciproca. E in serata – in sala, circondato dai miei dischi e dai miei libri – non ho potuto fare a meno di scrivere.

Sicuramente è colpa della mia poca memoria, ma quando penso al “dialogo” e alla “comprensione reciproca” tra Italia e Africa non mi viene in mente nulla, se non il controllo da parte della “brava gente” italiana dell’Eritrea dal 1882 al 1947, della Somalia dal 1890 al 1945, della Libia dal 1911 al 1943 e dell’Etiopia dal 1936 al 1941 – queste sono state le quattro colonie del Belpaese, anche se pare lo ricordino più in pochi.

Non solo, mi vengono in mente i soldati italiani che abusavano di persone somale, fatti che venimmo a conoscere grazie all’inchiesta condotta dal settimanale Panorama nel giugno del 1997: “furono pubblicate fotografie con immagini di soldati che abusavano di persone tenute in custodia dall’esercito occupante. I responsabili di questi atti erano italiani, somale le vittime. Le foto risalivano al 1993, ai tempi della missione di pace Ibis in Somalia, ma lo scandalo scoppiò quattro anni più tardi, quando il magazine della Mondadori, diretto da Giuliano Ferrara, pubblicò le foto e condusse una clamorosa e al contempo sobria campagna giornalistica

E ancora… mi viene in mente quando nel 2011 l’Italia partecipò, insieme alle forze Usa/Nato, al bombardamento aeronavale della Libia: “il 19 marzo 2011, le forze Usa/Nato iniziano il bombardamento aeronavale della Libia. La guerra viene diretta dagli Stati Uniti, prima tramite il Comando Africa, quindi tramite la Nato sotto comando Usa. In sette mesi, l’aviazione Usa/Nato effettua 30 mila missioni, di cui 10 mila di attacco, con oltre 40 mila bombe e missili. L’Italia – con il consenso multipartisan del Parlamento (Pd in prima fila) – partecipa alla guerra con 7 basi aeree (Trapani, Gioia del Colle, Sigonella, Decimomannu, Aviano, Amendola e Pantelleria); con cacciabombardieri Tornado, Eurofighter e altri, con la portaerei Garibaldi e altre navi da guerra. Già prima dell’offensiva aeronavale, erano stati finanziati e armati in Libia settori tribali e gruppi islamici ostili al governo, e infiltrate forze speciali in particolare qatariane, per far divampare gli scontri armati all’interno del Paese” –

Son sincero, non mi viene in mente altro, a parte il brutto incontro di calcio svoltosi nel giugno del 1982 fra Italia e Camerun ma, in quel caso, non facemmo troppi danni ai fratelli neri i quali, non riuscendo a sconfiggere gli azzurri – finì 1 a 1 –, vennero semplicemente eliminati dai Mondiali che si stavano giocando in Spagna.

Ma, ripeto, sicuramente è colpa della mia poca memoria.

La mia Africa, quella che ancora mi porto nel cuore, nasce nel 1977 con la musica reggae di Bob Marley: è quando m’informo su cos’è il rastafarianesimo – religione monoteista, nata negli anni Trenta del secolo scorso – che inizio ad avvicinarmi all’Etiopia e al continente africano, proseguendo questo mio viaggio in Sudafrica grazie a Hugh Masekela e agli Special AKA col loro brano Nelson Mandela, in Senegal grazie a Youssou N’Dour, in Guinea con Mory Kanté e via cantando, nel vero senso della parola.

Con gli anni, le proporzioni del tempo dedicato dal sottoscritto alla musica e alla lettura si sono invertite e così, mentre i vinili tacevano, ha iniziato a farsi sentire la voce dei libri scritti da africani.

E così mi sono fatto raccontare la follia omicida che s’è impossessata del Rwanda tra l’aprile e il luglio del 1994 – la guerra tra Tutsi e Hutu – da Boubacar Boris Diop col suo scioccante Rwanda. Murambi, il libro delle ossa: “Lo sapevo che diventando interahamwe [milizia paramilitare Hutu] avrei quasi certamente dovuto uccidere qualcuno o cadere sotto i suoi colpi. Non è stato mai un problema per me. Ho studiato la storia del mio paese e so che i tutsi e noi non potremo mai vivere insieme. Mai. Un mucchio di venditori di fumo sostengono il contrario, ma io non ci credo. Farò il mio lavoro per bene. […] tutti quei tutsi da uccidere. Non credevo che fossero così tanti. Mi sembra che il mondo intero sia popolato da tutsi. Che noi siamo i soli al mondo a non essere tutsi”.

E ancora: “Tu sai come violentano le donne? Sì, l’avevo visto. Venti o trenta tipi su una panca. Alcuni di una certa età. Una donna, a volte una fragile ragazzina, viene schiacciata contro una parete, con le gambe divaricate, completamente inconsapevole. Non c’è nessuna violenza in quei bravi padri di famiglia. Mi aveva gelato il sangue vederli parlare di tutto e di niente mentre una vita cadeva a pezzi per sempre sotto i loro occhi. E tra gli stupratori c’è sempre, apposta, qualche malato di aids. […] Quando hanno finito, ti versano dell’acido nella vagina oppure ti infilano dentro dei cocci di bottiglia o dei pezzi di ferro”.

E ancora: “I nostri uomini, seduti su pile di cadaveri ancora caldi, bevevano birra e si passavano le sigarette […]. In quel momento un cane è uscito da un mucchio di cadaveri con il piede di un bambino stretto fra i denti”.

E ancora: “Sono sempre più crudeli. Spesso pretendono dalle madri che siano loro stesse a pestare i propri neonati nel mortaio prima di venire giustiziate”.

E per concludere (si fa per dire): “Su questo fiume, il Nyabarongo, durante il genocidio sono stati contati fino a quarantamila cadaveri che galleggiavano contemporaneamente. Non si vedeva nemmeno più l’acqua”.

Penso che quanto sopra sia sufficiente come esortazione alla lettura di questo libro. Ma prima di passare a suggerire un altro titolo, credo vadano ricordate almeno due cose attinenti a questo scioccante Rwanda. Murambi, il libro delle ossa: la prima è che, all’epoca, tanti governi europei avevano venduto al Rwanda – paese poco più piccolo della Lombardia – così tante armi da renderlo il terzo importatore di materiale bellico dell’Africa; la seconda è che durante il massacro è stato registrato un ritmo di uccisioni paragonabile solo a quello dell’universo concentrazionario nazista.

E ora passo al secondo titolo.

Mi sono fatto raccontare come vive una donna senegalese trasferitasi in Francia, ossia cosa prova chi lascia una realtà povera di mezzi ma ricca di umanità, per trovarsi immersa in un mondo che mortifica la dignità e infrange tutti i sogni. A spiegarmelo col suo Sognando Maldini è stata Fatou Diome: “Mia nonna mi ha insegnato molto presto come cogliere le stelle: di notte, basta posare una bacinella d’acqua al centro del cortile per averle ai propri piedi”.

E ancora: “[in Africa] Sfacciatamente, la Coca-Cola viene a ingrossare il suo fatturato persino in quelle contrade… dove l’acqua potabile è un lusso”.

E ancora: “[in Francia] Seduta comodamente cambiavo canale andando un po’ a casaccio finché, ben presto, una scena catturò la mia attenzione. Si vedevano certe ragazze uscite da un casting commerciale, un gruppo di svampite che ignoravano tutto delle lotte per la dignità delle donne. Su note rubate a diversi compositori dei cinque continenti esibivano i loro corpi di anoressiche urlando versi scadenti. Dio mio, ridammi Piaf, Brel, Brassens, Barbara e Gainsbourg […]”.

E ancora: “[in Africa] Le squadre portavano nomi di club francesi, ogni ragazzo si faceva chiamare con il nome del suo eroe preferito. Sui terreni sabbiosi, delimitati da quattro pezzi di legno raccolti in fretta per fare le porte, si poteva vedere il Paris-Saint-Germain che affrontava l’Olympique Marseille, o il Nantes che sbaragliava il Lens, quando il Sochaux non faceva fatica contro lo Strasbourg. Eppure la televisione mostrava anche altre grandi squadre occidentali. Ma niente da fare. Dopo la colonizzazione storicamente riconosciuta, regna una sorta di colonizzazione mentale […]”.

E ancora: “[…] la peggiore indecenza del XXI secolo è l’Occidente obeso di fronte al Terzo mondo rachitico”.

Mi sono fatto raccontare come – grazie a intelligenza, sfacciataggine e a una buona dose di coraggio – ci si possa prendere gioco di tutti i ricchi e i potenti, siano essi bianchi amministratori dell’imperante colonialismo francese siano essi neri depositari del potere tradizionale. A spiegarmelo col suo L’interprete briccone è stato Amadou Hampaté Bâ: “quando i nemici ordiscono un complotto per farti del male, bisogna saper conservare il sorriso, anche nelle avversità. Così i nemici perderanno l’occasione, che davano per scontata, di compiacersene. Dubiteranno di essere riusciti nel loro intento. E questo farà loro tanto male quanto ne volevano fare a te. Sapersi comportare in modo da deludere il proprio nemico è una forza che permette ad un uomo di vendicarsi con dignità, senza lasciar trasparire niente”.

E ancora: “quando si ha paura della realtà, la mente accetta qualsiasi creazione dell’immaginazione pur di placare l’ansia”.

E ancora: “È […] uno di quei bianchi-bianchi commercianti coloniali che non esitano a ingannare gli indigeni, quando comprano materie prime, e a ingannarli di nuovo quando rivendono loro le materie prime sotto forma di manufatto”.

E ancora: “era disposto a giocare brutti tiri per far soldi: ma sempre ai danni dei colonizzatori, dei capicantone o dei ricchi commercianti che considerava sfruttatori della massa contadina”.

E ancora: “Cos’è la ricchezza? È colei che rivela il vero carattere e i veri sentimenti dell’uomo.”

Insomma, prima gli africani me le hanno cantate poi sono venuti gli anni in cui, dagli africani, me la son fatta raccontare. E ancora mi fa piacere che me la raccontino, specie quando incrocio i miei amici Modù, Sek e Khalil, alla spiaggia, per strada, sul posto di lavoro.

Al momento, però, dai politici italiani non me la faccio raccontare.

*scrittore sul sito  www.marcosommariva.com tutte le sue pubblicazioni

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