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Juliusstrasse: case d’affitto abitate da povera gente

Un racconto che, rivisitando in modo completamente libero alcuni testi di Fabrizio De Andrè (“Se ti tagliassero a pezzetti” e “Sogno n. 2”) e alcune immagini de “Il processo” di Franz Kafka, ha l’intenzione di illuminare attraverso la narrativa il dramma delle carceri, del 41-bis e del caso di Alfredo Cospito

di Mattia Battistelli

Qualcuno doveva avere aiutato Gio K. a sua insaputa, perché, senza alcun preavviso, una mattina venne rilasciato.

Per la prima volta dopo cinque anni percorreva la strada asfaltata del dentro-fuori con le proprie gambe. Le auto blu scuro e i cellulari riposavano sonnolenti mentre l’uomo si guardava intorno cercando di capire dove fosse stato, dentro a quel corpo.

Di quel camminamento, fece radiografia. Raccolto il mento nella zip della tuta, attese che il grande portone si aprisse: tamburellava, agitato dal vento; poi si richiuse, questa volta ermetico, lasciando Gio K. solo con il suo borsone.

Che giorno era? Dal vociare era sicuramente l’ora di lasciare le celle. Ma quale giorno era? Si guardò indietro, misurando la grandezza del carcere con segmenti di sguardi: da dentro, quella scatola, sembrava decisamente più piccola. Dalla parte opposta la strada statale pareva una ferrovia d’asfalto: dritta e senza dare l’idea che potesse finire.

Da che parte, si chiese, si arriva a Sassari? Destra o sinistra? Poco importa, pensò, questa strada è fatta per chi qui ci viene libero, per poter prendere, lasciare e ripartire. Cosa se ne farebbe, un container, di una mappa?

E in effetti, a ben guardare, in mezzo a quel pianoro tagliato dalla semiretta d’asfalto non vi era alcun riferimento. Nessuna indicazione stradale. Un cartello pubblicitario. Addirittura, alla fermata del bus, non vi era nemmeno una pensilina per proteggersi dalla pioggia.

E a piovere, forse, iniziò pure.

Nessun riferimento sonoro, ad eccezione del vento. Nessun riferimento visivo, ad eccezione delle vecchie ciminiere di Porto Torres, 15 km in là. Ma bisogna essere della zona per sapere che quelle sono le vecchie ciminiere di Porto Torres. Altrimenti sono solo due torri in lontananza, nulla più; proprio come la collina sul fianco dell’istituto.

Il Bacchiddu. La Scatola. L’Alta Sorveglianza. E il Carcere Duro.

Gio K. decise di risalire la collina. Unico limite al cielo, – e alle nuvole, alla pioggia, alle sbarre, agli uccelli, ai vestiti stesi, – quando guardava, il più lontano possibile, dalla finestra della sua ultima cella.

Per 2 anni, 8 mesi e 5 giorni solo quest’orizzonte. E nemmeno una foglia secca incastrata sul davanzale quando la natura avesse deciso di tagliarsi a pezzetti e volare, come parola, oltre la cinta. Niente. Solo polvere e polline, su quel piano di gabbia. E panni, che a vederli di distante sembravano bandiere di preghiera tibetane.

La strada di muretti a secco avvolgeva la collina e Gio K. – le gambe già indolenzite – la percorse fino a raggiungere l’albero sul punto più alto. L’albero, le cui forme e colori gli avevano fatto da calendario negli ultimi anni, spiegava l’inizio della primavera, quasi fosse un risarcimento offerto ai suoi occhi.

Poi, una voce asciutta.

«Buongiorno condannato.»

Un morso gli strattonò lo stomaco, come se una sofferenza creduta passata si fosse rinnovata. Volteggiò lo sguardo muovendo ampiamente il capo ma non incontrò da dove – e soprattutto da chi – provenisse la voce. Fece qualche passo oltre l’albero annaspando la ricerca, anche solo per accertarsi che, a forza di ripetersi per tanti anni qui ci divento pazzo… quella, alla fine, ne fosse la prova. E infatti, questa ne è la prova! si disse Gio K. guardando il vuoto terrazzo erboso e l’albero; una piazzetta e il suo lampione.

Ma ciò che avrebbe confermato la pazzia nel mondo della ragione, fu invece la ragione per cui la escluse.

«Ascolta condannato, un giorno un passante vestito di nero, accompagnato da due uomini, mi disse che i tribunali sono attratti dalle colpe. Così le carceri! E i giornali! aggiunsi io, poi lo vidi scendere lungo il fianco della collina e sparire…»

Gio K., voltatosi sui suoi passi – perché la voce arrivava proprio da lì – rimase immobile ad ascoltare. Una brezza fece luccicare qualcosa in mezzo ai rami; sembrava un panno di garza sfilacciato o la lana di pecora che rimane incastrata al passaggio.

Era invece la tela di un ragno; così, il dimesso Gio K., guardò più attentamente: sullo sfondo, a 15 km, le torri; sotto, a qualche centinaio di metri, La Scatola nella sua interezza. E solo ad un paio di pollici dal suo naso, un ragno che leggeva il giornale.

Aveva le zampe lunghe e affilate, quasi steli di erba secca. Quella in bocca ai ragazzi nelle passeggiate quando il tempo della scuola ormai va svanendo. Il naso era piccolo e a patata, tondo tondo preciso (una “o” maiuscola; proprio così: O) e un piccolo paio di occhiali con le lenti anch’esse tonde tonde precise (delle “o”, minuscole; questa volta così: o-o-o-o-…) che ingrandivano tutte le sue pupille.

«Sa, dottor… Non le ho chiesto nemmeno come si chiama, mi scusi. Sono abituato a parlare con persone conosciute» tentò di riprendere il filo del discorso il ragno.

«Sono…sono Gio K. ma…»

«Ah, straniero?» sentenziò senza aspettare risposta; poi proseguì «Comunque, dott. Gio K, le stavo dicendo che…»

«Non sono dottore, ho solo il diploma. L’ho preso l’anno scorso, proprio lì!» lo interruppe Gio K. indicando il carcere dietro al ragno.

«Che diamine!» sfuriò, «Poco importa! Ragioniere, dottore o analfabeta, mi stia ad ascoltare!»

Gio K. bisbigliò qualcosa senza farsi sentire, torcendo la bocca di lato per lasciare che le parole le disperdesse il vento, lontane dalla tela.

«Gio K.! Lei sa che là dentro non vi sono ribelli ma soci vitalizi del potere, tossici di potere, logorati privi di potere.» Parlava senza guardarlo. Osservava invece, con vedute d’insieme, le pagine del giornale, senza soffermarsi sugli articoli, forse perché già ne conosceva il contenuto. Una zampa fissa teneva il segno di una sezione verso la fine del giornale. Con altre tre lo sfogliava, ma solo durante le pause – pause perfette, da scena – del suo discorso al condannato.

Gio K. lo guardava invece, guardava il suo colore blu scuro, come gli abiti dei giudici, come gli abiti da cravatte. Quel blu da palazzo. Avrebbe desiderato colpire tutto: la tela, il ragno, il ramo. Il palazzo.

Così preziosa come il vino

Così gratis come la tristezza

Con la tua nuvola di dubbi e di bellezza

Recitò queste parole guardandosi i piedi, il fango, la tuta finalmente graffiata di terra.

«Condannato, sig. Gio K., lei ha visto con i suoi occhi qual è il premio di chi si vuole vendicare. Rinnovare il potere e divenire comburente del fuoco dei governanti. Tumori da giudicare, bene o male giusti o guasti ravveduti o ostinati. Voi siete la pagina sulla quale possiamo scrivere: Noi il modello, noi il paradigma, noi la regola

Gio K. sentì nella testa le parole di un vecchio compagno: possono anche dire legge ma non per questo significa che sia giusta. Quella che a volte gli uomini di legge chiamano giustizia, la legge degli uomini la chiama tortura.

«Dottore,» alzò lo sguardo e si chinò per tenere gli occhi allo stesso livello del ragno, «dottore, lei parla così perché qui non ha nemici, né padroni. Lei tira la sua tela e aspetta che il vento o l’ingenuità le portino da mangiare. Lei ha merito di essere nato con sei zampe, tanti occhi e molta bava da tessere?» gli diede così le spalle, e aggiunse: «lì sotto c’è un carcere, e anche quello è costruito come questa tela. Solo che laggiù nessuno ci mangia, piuttosto ci lasciano a mangiarci dentro. Fino a che non diventiamo tronchi cavi, buoni solo a bruciare al primo calore.»

«La conosce la storia del Candeliere di San Sebastiano, dottor…come ha detto di chiamarsi dottore?” Gio K. nel frattempo si era rialzato e sgranchiva le gambe accanto all’albero.

«Mi chiamo Salvatore Chiudisigilli, sono giudice emerito del Tribunale Superiore della Giustizia Certa e del Potere Buono.»

«Bene dottore. Non so da quanti anni lei è qui a leggere e a filare. Ma qualche tempo fa, con i ragazzi del laboratorio di falegnameria, abbiamo costruito un candeliere che oggi si trova nell’ingresso del Comune di Sassari.»

«E questo vi ha reso migliori agli occhi dei cittadini?»

«Non è questo l’essenziale. Ciò che importa è che i giorni prima della discesa dei candelieri, che sono le persone che portano il candeliere per le strade di Sassari e che lo fanno ballare al rullo dei tamburi, è stato consegnato il candeliere d’oro ad un cittadino illustre, per meriti sportivi, culturali, politici. Ed era uno di noi.»

«Non conoscevo questa tradizione, eppure di persone illustri ne conosco, ne leggo!»

«Quel giorno il Candeliere di San Sebastiano, cioè quello costruito in carcere, viene fatto ballare al rullo dei tamburi: e mentre alcuni di noi facevano ballare il Candeliere in piazza, gli altri hanno fatto la stessa cerimonia dentro al carcere» lo disse guardando il nuovo orizzonte, ora riconoscendo la piana di Sassari.

«Sig. K., non capisco perché mi raccontiate questa storia.»

«Dottore, lei ha mai sentito intitolare un carcere ad una persona che non avesse la divisa o la tonaca?»

«Cosa intende?»

«Martiri di chiesa e martiri in divisa. I nomi delle carceri arrivano tutti da lì.»

«Non ci avevo riflettuto.»

«Eppure parlate sempre di pena, di cella, di penitenziario, di ravvedimento, di espiazione. Di grazia, di confessione. Come in chiesa, ma qui è carcere, legge! Non testi sacri, peccati o salvezza.»

Il ragno restò muto, gli occhiali discesi all’estremità del naso. Aveva anche perso il segno della pagina dello sport.

«Io me ne vado dottore, Sassari è di là!» disse inseguendo il sole con gli occhi. La verità era davanti a lui, come il tramonto.

Che taglia i dettagli, acceca, complica le descrizioni.

«Dottore, non mangio da tre mesi. Me ne vado. Ad aspettare, continui lei.»

Quel giorno i candelieri di San Sebastiano, usciti dal carcere a bordo dei cellulari blu scuro, fecero ballare il Candeliere da loro costruito nella piazza della città.

Cantavano, durante il ballo:

Mai ballato così a lungo

Sopra il filo della notte

Sulle pietre del giorno

Io suonatore di chitarra

Io suonatore di mandolino

Alla fine siamo caduti sopra il fieno

Persa per molto persa per poco

Preso sul serio preso per gioco

Non c’è stato molto

Da dire o da pensare

La fortuna sorrideva

Come uno stagno a primavera

Spettinata da tutti i venti

Della sera

A guardare bene, i volti delle figure dipinte sulle tavole di legno del candeliere portavano qualcosa di anacronistico, rispetto all’iconografia dei santi: avevano tutte in viso degli occhiali, trafitti da due frecce che si conficcavano nei bulbi; ma non vi era sangue, solo un gran silenzio.

Tutti i volti del Candeliere di San Sebastiano avevano dei grandi occhiali quadrati, la testa rasata, due grandi baffi spessi e neri.

E un enorme sorriso.

Di un dio il sorriso.

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