Aggredita e arrestata dopo aver definito la morte di Armita Garavand un «omicidio di Stato». Nasrin Sotoudeh, la celebre avvocata iraniana in prima linea per la difesa dei diritti umani, è stata brutalmente picchiata e poi condotta in cella domenica, a Teheran, dopo il funerale della 17enne uccisa a botte dalla polizia morale iraniana, che l’ha aggredita in metropolitana circa un mese fa. Ufficialmente, la colpa dell’avvocata è stata quella di essersi presentata in pubblico senza velo – alcuni video e foto provano la sua presenza senza hijab – e «di attività contro la sicurezza mentale della società». Ma potrebbe trattarsi di un protesto, dal momento che Sotoudeh è già finita nel mirino del regime più volte per la sua attività di difesa delle donne, tanto da essere stata condannata all’esito di un processo ingiusto. L’avvocata stava scontando la detenzione a casa, per motivi di salute. Ma ora è finita di nuovo in carcere, assieme ad altri manifestanti, tutti presenti domenica al funerale della giovane, dove si sono alzati slogan contro le autorità locali. «Armita, la tua anima è felice», «questo fiore pieno è un dono alla madrepatria»: queste alcune delle parole urlate per la 17enne vittima della follia del regime iraniano. Che ha reagito nuovamente con la violenza, picchiando i presenti, tenuti sotto stretto controllo per tutto il corso del funerale.

A finire in carcere insieme all’attivista sono stati Manzar Zarrabi, che ha perso diversi membri della famiglia sul volo 752 della Ukraine International Airlines – abbattuto l’8 gennaio 2020 pochi minuti dopo il suo decollo dall’aeroporto Internazionale di Teheran-Imam Khomeini dal Corpo delle Guardie rivoluzionarie islamiche iraniane – e due insegnanti, Masoud Zeynal Zadeh e Mohammad Garavand, parente di Armita, rilasciato nelle ore successive. Sotoudeh, Zarrabi e Zadeh sono stati invece trasferiti al centro di detenzione di Vozara, a Teheran, lo stesso dove Mahsa Amini – la cui morte diede vita ad una rivolta della società iraniana sotto lo slogan “Donna, vita e libertà” – fu massacrata dalla polizia morale lo scorso anno. I prigionieri sono stati trasferiti ieri nella prigione di Qarchak e dopo poche ore Zarabi è stata rilasciata a causa delle sue condizioni di salute, dopo aver avuto le convulsioni. Ed è stata la donna a riferire al marito di Sotoudeh, Reza Khandan, che l’attivista ha avviato uno sciopero della fame e dei medicinali sin dal momento del suo arresto.

La prigione di Qarchak rappresenta un vero e proprio incubo per le detenute iraniane: in 10 metri quadrati, in stanze chiamate “capanna”, vengono ammassati 12 posti letto e mancano le finestre. «L’Iran è un posto dove nessun tipo di critica al governo è concessa. Le carceri sono luoghi senza regole e anche gli adolescenti possono essere condannati a morte, in spregio a qualsiasi convenzione internazionale. E nessun giornale può raccontare quello che accade: l’unica tv è quella di Stato, che spesso manda in onda, prima dei processi, le false confessioni estorte ai prigionieri con la tortura», aveva raccontato tempo fa Khandan al Dubbio, sottolineando come le violazioni dei diritti umani siano diffuse e sistematiche ed avvengano per conto del governo.

Il funerale di Armita si era svolto sotto l’occhio vigile delle forze della sicurezza organizzata della Repubblica Islamica, al punto che i presenti hanno evitato di mangiare e bere nella sala dei ricevimenti. Il corpo della giovane è stato sepolto nella sezione 99 del cimitero di Behesht Zahra a Teheran, ma a lungo è circolata la voce di un tentativo di impedire che il funerale si svolgesse nella capitale. Sotoudeh, nelle scorse ore, aveva espresso la propria condanna nei confronti della politica iraniana, attribuendo la morte di Armita al regime. Martedì scorso, inoltre, aveva dedicato al movimento “Donna, vita e libertà” – e in particolare alla 17enne e a sua madre – il premio “Civil Courage Prize”. Non potendo lasciare l’Iran a causa della sua condanna, a ritirare il premio a New York, a suo nome, è stata la studiosa del Wilson Center Haleh Esfandiari, finita anche lei per circa otto mesi nelle famigerate carceri iraniane. Sotoudeh ha mandato, però, un video messaggio, con il quale ha dedicato il riconoscimento alle «donne che si sono sollevate per liberarsi dal giogo opprimente del patriarcato». «Gli occhi dei manifestanti sono stati cavati per negare loro la vista – ha affermato -, ma i loro occhi si sono moltiplicati in migliaia». Il movimento “Donna, vita e libertà”, ha aggiunto, «non è giunto al termine». E perdere «la speranza nel coraggio civile» non è un’opzione. «Sono ancora molte le donne che, quotidianamente, sfidano l’hijab obbligatorio nelle nostre strade – ha spiegato -. Dimostrano il loro coraggio civico ma rimangono a rischio di arresto e violenza». Proprio ciò che è successo a lei, non solo per il brutale pestaggio di domenica, ma per la scelta, da avvocata, di difendere le ragazze della “via della Rivoluzione”, ree di essersi rifiutate di portare il velo: accusata di «propaganda sovversiva» e di «aver incoraggiato la corruzione e la dissolutezza», l’attivista è stata condannata nel 2018 a 148 frustate e 33 anni e mezzo di carcere, dei quali dovrà scontarne almeno 12.

Un processo che si è svolto in sua assenza e contro il quale il Consiglio nazionale forense italiano ha alzato la voce, attirando l’attenzione del mondo sulla sistematica violazione dei diritti umani in Iran e sul sacrificio degli avvocati a tutela dei diritti. Già condannata nel 2011 a sei anni di reclusione per propaganda e attentato alla sicurezza dello Stato, Sotoudeh era stata rilasciata nel 2013 dopo uno sciopero della fame di 50 giorni, che ha suscitato indignazione in tutto il mondo. Ma la sua lotta per le donne arrestate tra dicembre 2017 e gennaio 2018 per essersi tolte il velo in pubblico, contraddicendo la legge in vigore dalla rivoluzione islamica del 1979, l’ha fatta finire di nuovo nelle maglie della “giustizia” e della spaventosa prigione di Evin. «La pace e la sicurezza del mondo si basano esplicitamente sul rispetto per i diritti umani – ci ha raccontato Sotoudeh in un’intervista esclusiva al Dubbio a dicembre dello scorso anno -. Il mondo non può sedersi a negoziare con la Repubblica islamica, ignorando le sofferenze del popolo iraniano».

Ferma la reazione del Consiglio nazionale forense, che in una nota ha espresso «profonda preoccupazione». Il Cnf, «che sta seguendo con massima attenzione l’evolversi del caso, condanna con fermezza l’arresto arbitrario di Nasrin Soutodeh e ne chiede alla Autorità iraniane l’immediato rilascio e la garanzia che i diritti previsti dalle convenzioni internazionali e i princìpi del giusto processo le siano garantiti oltre a tutte le cure mediche necessarie. Il Consiglio nazionale forense lancia inoltre un appello affinché cessino tutte le forme di violazione dei diritti fondamentali, che in Iran si manifestano in particolare nei confronti delle donne – continua la nota -. Queste violazioni rappresentano un affronto ai più elementari principi di uguaglianza, libertà e non discriminazione sanciti nella Dichiarazione universale dei diritti umani e nelle convenzioni internazionali».