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Ideologia e polizia: la politica interna e la politica estera di Frontex

Capire Frontex, oltre la notizia: un dialogo di Melting Pot Europa con Yasha Maccanico, ricercatore di Statewatch

a cura di Giovanni Marenda

Gli scandali di corruzione, le dimissioni di Leggeri, le violazioni sistematiche dei diritti umani rivelate dal rapporto Olaf (Agenzia antifrode della UE) 1. Gli aerei che sorvolano il Mediterraneo, le macchine della polizia tedesca lungo i confini balcanici. E le proteste del mondo accademico contro gli accordi tra l’agenzia e il Politecnico di Torino, la rete Abolish Frontex, il Parlamento Europeo che si rifiuta di approvare il bilancio consuntivo del 2020.

Di Frontex nell’ultimo anno si è fatto un gran parlare, ma rimane la sensazione di non riuscire a cogliere del tutto il significato di quest’agenzia: cos’è, cosa fa, a chi risponde, la sua importanza strategica.

È per questo che  Melting Pot Europa ne ha  parlato con Yasha Maccanico, ricercatore di Statewatch, che da molti anni si occupa di fare luce sull’opacità di quest’agenzia europea. Al di là delle statistiche, al di là della notizia: con Yasha proveremo ad andare al cuore di Frontex, ovvero al cuore del disegno europeo.

Le notizie su Frontex si susseguono: indagini, rapporti, commissioni di inchiesta… Non si capisce però quali siano i reali effetti di tutte queste azioni contro l’agenzia, oltre alla delegittimazione mediatica. Per ora, sembra che il solo risultato sia stato di aver reso l’Agenzia EU un tema controverso, quantomeno per una parte dell’opinione pubblica. Ma, concretamente, qualcosa sta cambiando?

Sì, finalmente c’è stata un po’ di attenzione su questa agenzia, dopo i molti scandali che l’hanno coinvolta. Ma io preferisco non focalizzarmi sempre su quelli, perché mi sembra che il problema sia il suo modus operandi abituale più che il puntuale sostegno a una qualche violazione dei diritti umani. Infatti, per poter applicare delle politiche di immigrazione intransigenti come quelle europee, c’è bisogno di normalizzare e legalizzare la discriminazione e il razzismo nell’operato di agenzie e polizie.

La questione centrale è che Frontex è difficilissima da rendere responsabile per le sue azioni, perché tecnicamente di azioni non ne fa molte, almeno fino all’ultima riforma del suo regolamento. Infatti, Frontex opera al livello strategico, al livello dell’analisi dei rischi, al livello delle impostazioni. E questo livello di azione ed analisi va oltre i principali scandali che ci sono stati ultimamente.

Un’ulteriore e più ampia problematica è la difficoltà nella ricostruzione delle politiche di esternalizzazione delle frontiere – per quanto ci siano degli effetti che saltano agli occhi, come la coincidenza tra la ripresa dei rapporti tra Spagna e Marocco e il massacro di Melilla. Dal 2015 c’è stata una forte spinta verso l’esternalizzazione, che ha spostato molte azioni dall’ambito degli affari interni a quello della EEAS (European External Action Service), ovvero delle questioni diplomatiche e di politica estera, e quello delle CSDP (Common Security and Defence Policy), ovvero le missioni di sicurezza e militari, che sono presenti in Libia o in Niger, per esempio.

In entrambi questi campi d’azione molte informazioni possono essere secretate legalmente, per proteggere i rapporti con i paesi terzi in nome della sicurezza interna. Pertanto, gli effetti dell’esternalizzazione europea rimangono opachi. Uno di questi, che le autorità provano a nascondere, è il rafforzamento dei ministeri degli interni dei paesi terzi, che sta avvenendo in molti stati con cui si collabora.

Dato il piano d’azione strategico di Frontex, qual è dunque il rapporto di collaborazione tra l’agenzia e le autorità nazionali?

L’aspetto problematico è Frontex sostiene sempre qualsiasi cosa facciano gli stati membri alle frontiere. Questo è anche un modo per poi farsi accettare dalle autorità statali, nel complesso rapporto tra livelli. E quindi Frontex riesce a non avere delle responsabilità legali, perché le responsabilità per gli interventi sono in capo agli stati che attuano direttamente le azioni. Come dicevo, il livello di Frontex è quello strategico, quello delle raccomandazioni, che poi gli stati possono seguire o meno.

Tuttavia, i casi italiano e greco hanno mostrato un cambiamento di questo rapporto tra livelli. Quando l’Italia e la Grecia hanno chiesto l’aiuto delle autorità europee per gestire l’influsso massiccio di persone che arrivava dall’Africa e dal Medio Oriente, in particolare dal conflitto siriano, i due paesi hanno ricevuto un sacco di fondi per l’accoglienza, ma anche per costruire hotspot e di fatto subordinare i diritti alle impostazioni europee. Le linee guida comunitarie prevedevano la classificazione e la registrazione mediante l’acquisizione delle impronte digitali, ed in generale un circuito di arrivo – registrazione in Eurodac (acquisizione delle impronte digitali), esclusione dalle relocations, detenzione e deportazione 2 – molto più veloce.

Essenzialmente, attraverso la richiesta d’aiuto di Grecia ed Italia sono state implementate delle regole europee che fino ad allora non venivano applicate in modo sistematico, perché percepite come negative per i propri interessi dai paesi di primo approdo. In particolare, la corretta registrazione di tutti coloro che arrivavano nella banca dati Eurodac, che Italia e Grecia temevano avrebbe peggiorato la loro situazione di svantaggio strutturale alla luce del regolamento di Dublino.

Leggendo le statistiche sugli “attraversamenti illegali” delle frontiere balcaniche, che sono molto cresciuti negli ultimi mesi, si intuisce come il lavoro di registrazione delle persone da parte di Frontex e delle polizie nazionali stia diventando sempre più efficiente. Dall’altro lato, il progressivo “miglioramento” nella raccolta e gestione dei dati evidenzia quanto questo sia stato finora problematico.

Il fatto è che ci sono dei periodi in cui c’è interesse ad abbassare le statistiche in entrata, per dimostrare che gli sforzi e le spese sono stati utili, e ci sono periodi in cui, al contrario, si alzano per creare allarme. Tra il 2010 e il 2015, Frontex lanciava allarmi denunciando l’aumentare del numero di persone in entrata dai Balcani, salvo poi dover confessare che il numero di attraversamenti di frontiera veniva equiparato a quello delle persone entrate, quando sappiamo benissimo che una sola persona può attraversare la stessa frontiera decine di volte, e che la stessa persona attraversa più frontiere.

Le cifre vengono dunque sempre presentate nel modo più utile al fine perseguito, e questo è uno dei problemi principali di Frontex a mio parere: l’uso disonesto dei numeri, a volte allarmista e a volte minimizzate, a seconda dell’interesse politico del momento.

Il fatto che Frontex sia sempre di più il catalizzatore di tutte le informazioni provenienti dalle varie forze di polizia diventa quindi molto problematico.

A proposito di dati, in che modo si è dunque sviluppata Eurodac, considerando sia la “negligenza” dei paesi europei di confine, che la necessità di far fronte con dati ufficiali alle attività spesso informali delle polizie?

Come dicevo, Eurodac era diventata quasi obsoleta negli scorsi anni proprio perché ai paesi di prima entrata conveniva non registrare troppe persone, per il carico amministrativo non indifferente della registrazione stessa ma soprattutto per evitare che le persone venissero poi “dublinate” – ovvero facessero ritorno nel paese di primo approdo, dopo aver effettuato movimenti secondari verso altri paesi dell’Unione, per procedere con la richiesta d’asilo.

Comunque, rimaneva la possibilità delle consegne informali (permesse dalla Direttiva sui Rimpatri) tra stati in presenza di un qualche accordo bilaterale, come succedeva tra Italia e Slovenia, per esempio. Queste riammissioni informali hanno scaturito spesso violenza e respingimenti a catena fino all’esterno dell’UE, anche da Italia e Austria. L’utilizzo delle consegne informali è poi funzionale a costruire l’impressione che i servizi di frontiera funzionino meglio di quello che accade nella realtà, riducendo i dati sugli attraversamenti – oltre a causare un evidente problema di accesso all’asilo. Dopotutto, è lo stesso Patto per la Migrazione e l’Asilo che prevede la generalizzazione del modello dei respingimenti informali, in particolare attraverso la designazione di paesi esterni come sicuri anche se non lo sono.

Dal 2015 c’è stato l’ultimo grande sforzo per perfezionare il sistema Eurodac, che gli stati avevano quasi smesso di usare. L’utilizzo di questa banca dati era legato a doppio filo con il “sistema Dublino”, sistema che iniziava ad essere messo in discussione dalle stesse istituzioni europee. I fallimentari progetti di ricollocamento indicavano che il “sistema Dublino” faceva acqua, come riconosceva anche il commissario Avramopoulos, all’epoca responsabile della materia. Però Eurodac rimaneva un punto centrale nel progetto europeo di interoperabilità delle istituzioni, che puntava ad unire i database di polizia, immigrazione e asilo.

Inizialmente, Eurodac doveva servire ad individuare il paese europeo competente per la richiesta d’asilo, però molto presto si è trasformato in qualcosa di più. Infatti, si iniziavano a registrare le impronte digitali di tutti quelli che entravano nei paesi dell’Unione, anche se non esprimevano la volontà di richiedere protezione internazionale. Quindi Eurodac passava dall’essere una banca dati spacciata per fondamentale per l’accesso al diritto d’asilo – per decidere quale era l’autorità nazionale responsabile -, ad essere semplicemente un sistema di schedatura di tutti gli immigrati, siano essi richiedenti asilo o altre persone trovate irregolari nel territorio o entrare irregolarmente nell’Unione Europea. Di fatto, è diventato un sistema di schedatura degli immigrati.

Quale prospettiva traccia l’implementazione di un vasto database europeo di questo genere?

La prospettiva è di una gravità estrema. Perché si viola così un principio basilare della protezione dati, ovvero che le informazioni devono essere usate per lo scopo per cui sono raccolte. Se ogni informazione è a disposizione di ogni forza di polizia o autorità viene meno questo principio. Oltretutto, l’UE sta cercando di rafforzare questo sistema sempre di più. Sono uscite alcune cose sulla raccolta di dati biometrici, sulla messa in condivisione di ulteriori banche dati fra vari paesi… Noi abbiamo pubblicato un rapporto sulle possibilità di Europol di processare i dati 3, e sembra si vada verso una raccolta sempre più estesa che giustifica usi anomali, creando una sorta di valutazione globale della persona.

Se c’è un’enorme raccolta dati su caratteri personali che non hanno nulla a che vedere con possibili rilievi penali, uno dei rischi è che semplicemente provenire da una determinata zona o avere un determinato accento possa causare il rifiuto della richiesta d’asilo. Provenire da una zona con gruppi armati attivi potrebbe condurre all’esclusione di alcuni rifugiati perché “non ci possiamo prendere il rischio”.

Per esempio, dopo la presa del potere dei talebani in Afganistan bisognerebbe proteggere tutti gli afghani, ma le autorità sono alla ricerca di un modo per poter rifiutare le persone, cercando di considerarle collettivamente come minacce per la sicurezza o per l’ordine pubblico. È il modello “canale Isis”, e penso sia la cosa che ha fatto più danni alle politiche migratorie, accoppiata al discorso sui “fattori di spinta” e i “fattori di attrazione”.

È la stessa costruzione discorsiva e normativa che ha portato alla criminalizzazione della solidarietà.

Esatto, attraverso la retorica sui fattori d’attrazione si è arrivati a considerare una persona che aiuta i migranti come una persona che va contro l’Europa, perché rende più difficile l’implementazione di certe politiche. Da qui parte la criminalizzazione delle ONG, nella quale Frontex ha avuto un ruolo fondamentale e pioneristico, anticipando la politica nel definire le navi che salvavano le persone al largo come un “pull factor”, perché aumentavano la possibilità di arrivare in vita di chi attraversava il Mediterraneo. Praticamente, la sopravvivenza è diventata un problema.

Già nell’agenda europea sull’immigrazione del 2015, era stato dichiarato esplicitamente che si volevano rendere più pericolose le traversate via mare per contrastare i trafficanti, quando sapevano benissimo che i trafficanti non salivano sulle barche. E poi la politica degli hotspot, dove i diritti erano subordinati all’acquisizione delle impronte digitali, penalizzando chi non era disposto a consegnarle. E poi i campi sempre più chiusi, anche da un punto di vista di accesso alle informazioni.

In Italia come in Grecia poi la presenza della task-force regionale dell’UE, che includeva la presenza di Frontex, è stata strumentale anche nella lotta alle ONG. Non sorprende affatto che la campagna giudiziaria sia partita da Catania, col procuratore Zuccaro, che aveva ammesso di collaborare benissimo con Frontex.

Un altro tassello riguardava le operazioni di sbarco: si è normalizzato il fatto di lasciare immediatamente le impronte digitali, di fare interrogatori con i naufraghi per indagare su cosa fosse successo, per provare ad arrestare un paio di persone con l’accusa di essere “scafisti quando in realtà erano passeggeri come gli altri e semplicemente guidavano la barca. Questo da un lato permetteva alle forze di polizia di far vedere che stavano arrestando criminali, dall’altro alimentava la narrazione del migrante pericoloso e del movimento delle persone associato unicamente ai trafficanti. Il risultato sono state pene spropositate per persone che si erano semplicemente mosse per aiutare gli altri ad arrivare sani e salvi alla destinazione, anche rischiando la vita 4.

Ancora relativamente alle impronte, c’è una questione interessante che emerge nei documenti ufficiali: il fatto che ci fossero persone che si rifiutavano di darle o che arrivavano ad auto lesionarsi per cancellarle, era descritto come una questione di non conoscenza delle procedure. Dal punto di vista delle istituzioni c’era il bisogno di spiegare come funzionava il sistema per l’attribuzione dello status di rifugiato, come funzionava la banca dati. Pensavano bastasse semplicemente rassicurare le persone. Ma le manifestazioni all’interno degli hotspot contro la presa delle impronte nascevano, al contrario, da una consapevolezza e una conoscenza del sistema.

Se mi prendono le impronte il mio futuro è finito”, “il mio progetto non ha più un futuro”.

Le persone sapevano benissimo cosa avrebbe implicato: che non avrebbero più potuto andare dove volevano ma sarebbero dovute restare in Italia o in Grecia.

Parlando del ruolo cruciale dei paesi di primo approdo e di come l’UE ha agito su questi, Frontex è stata fin da subito presente nelle “task-force” regionali in Italia e Grecia che prima citavi. Che politica migratoria concorreva a costruire assieme alle altre agenzie europee?

Con la materializzazione delle task-force di Catania e del Pireo, in Grecia, c’è stata una commistione incredibile di agenzie europee, inclusa Europol, Frontex, Eurojust ed EASO (oggi EUAA). Quest’ultima era l’ufficio per il sostegno alle procedure d’asilo ma – in tandem con Frontex – da agenzia di facilitazione dell’accesso all’asilo è diventata di fatto un’agenzia di esclusione dalle procedure d’asilo su larga scala.

In quel contesto, è stata importantissima la dichiarazione del 2016 tra Unione Europea e Turchia, perché è attraverso quella dichiarazione che i richiedenti asilo venivano trasformati in persone entrate irregolarmente ed in attesa di essere trasferite in Turchia.

Dall’altro lato, in Italia è stata fondamentale la politica degli hotspot, che puntava a restringere i criteri per il diritto alla protezione e sui ricollocamenti. In questo modo si voleva costruire un sistema in cui tutti – o quantomeno la maggior parte, eccetto gli eritrei – di quelli che arrivavano per mare erano semplicemente da considerare migranti economici, “clandestini”, come li chiamano loro con un termine che poi è stato usato perfino in alcuni documenti europei. La costruzione dei “migranti economici” è stato un fatto essenziale. Il fatto che decine di migliaia di persone a cui erano negati i ricollocamenti (relocations) verso altri stati dell’UE dovuto ai criteri ultra-restrittivi adottati per queste procedure riuscivano poi ad ottenere l’asilo, in Italia veniva silenziato: doveva passare la narrazione che tutti quelli che arrivano via mare non sono rifugiati.

In Grecia non poteva funzionare quel gioco: c’era conflitto in Siria, gente che veniva dall’Iraq, dall’Afghanistan, e quindi si è fatto l’accordo con la Turchia. Ed è stato un gioco magistrale, perché ha permesso anche alla Grecia di violare sistematicamente le due direttive sulle condizioni di riferimento per l’accoglienza dei richiedenti protezione internazionale. Non importava particolarmente il fatto che la Turchia quasi non accettasse trasferimenti, perché quel principio era stato fissato. Quell’accordo era – ed è – così farlocco da essere semplicemente un comunicato stampa firmato dai capi di governo [tecnicamente l’autorità responsabile erano i capi di stato e di governo…], che rende esplicito il tentativo di agire in modo contrario alle leggi internazionali. Così passo dopo passo sono stati smontati il sistema dei diritti umani e alcuni principi fondamentali del diritto internazionale.

Parlando dell’importanza di Frontex nel determinare i processi nei paesi di confine diventati punti caldi delle rotte migratorie, in che misura possiamo contrapporre ai casi italiano e greco quello ungherese?

Il caso dell’Ungheria è un’anomalia, perché è l’unico in cui una sentenza giudiziaria ha portato al ritiro delle attività dell’agenzia dal paese 2. È interessante perché nel momento in cui è stata stabilita l’agenda europea sull’immigrazione, i tre paesi che era previsto ospitassero gli hotspot erano Italia, Grecia e Ungheria, ma l’Ungheria si è opposta.

Ricordo che l’agenda europea non si limitava ad istituire gli hotspot, ma era un’azione di più ampia portata volta ad imporre una linea dura nelle politiche dei paesi europei di confine e nei paesi terzi. Infatti, in Italia c’è stata la legge Minniti-Orlando, il cui fine era limitare le possibilità di appello alle decisioni negative d’asilo. Questa forte spinta politica è stata accompagnata anche da fondi ed aiuti economici.

In tutto ciò Italia e Grecia hanno chiesto aiuto e si sono adeguate, mentre l’Ungheria no. Perché? Orban così poteva essere perfettamente brutale alle frontiere, senza la necessità che ci fosse una guida e un interesse europeo. In Ungheria si è andati nella stessa direzione di Italia e Grecia ma da una prospettiva sovranista, quindi anche un po’ in conflitto con l’Unione Europea. Questo ha permesso ad Orban di attuare misure ancora più violente senza sentirsi commissariato, limitando l’influenza delle autorità esterne su ciò che succedeva nel paese.

Col tempo però sono comunque emerse alcune eclatanti violazioni dei diritti umani che hanno messo in discussione, se non l’approccio europeo alle migrazioni, quantomeno il ruolo di Frontex.

Frontex è uno strumento centrale per l’UE per la gestione delle migrazioni perché, essendo un’agenzia, in fin dei conti dipende direttamente dalla Commissione anche se il Consiglio (rappresentanze dei governi degli stati membri) è l’attore dominante nelle politiche di giustizia e affari interni. Quindi è stato tutto un disegno europeo, anzi, Frontex è stata uno strumento dell’UE non solo per governare i confini d’Europa ma anche per fermare le autorità se implementavano politiche di immigrazione divergenti.

Il lavoro di testate della stampa mainstream che si sono occupate di questo, come Der Spiegel, è stato importantissimo, ma era evidente che Frontex nel Mediterraneo centrale stava svolgendo un ruolo problematico, che consigliava agli stati di arretrare le loro attività in mare, per non diventare essi stessi “pull factors”. Oggi, siamo al punto in cui Frontex sorvola il mare e segnala agli stati la presenza di imbarcazioni di migranti, e poi le guardie costiere fanno tutto il possibile per non intervenire o ritardare il più possibile l’intervento in acque internazionali in attesa di un intervento della guardia costiera libica. Sono questioni importantissime perché non è solo il diritto internazionale o i diritti umani, qui si viola il diritto europeo e la Costituzione italiana, si viola il Codice penale. Si commettono delle illegalità tanto gravi quanto basiche, palesi.

Infatti, sembra che da molto tempo la realtà abbia oltrepassato il “la legalità” per quanto riguarda le politiche migratorie europee. In questo senso, Frontex stessa si può configurare sempre più come un’agenzia prettamente “politica”, in qualche modo pioniera della politica europea?

Assolutamente, tanto che Leggeri e Avramopoulos hanno agito in tandem dal 2015, e questo è stato fondamentalmente nell’evoluzione di Frontex. Prima, Frontex forniva le sue analisi però poi era fuori dalla fase strettamente politica, dall’ “accettiamo o non l’accettiamo”. Poi il tandem Leggeri-Avrampoulos ha iniziato ad agire come in preda ad un delirio di onnipotenza: in piena guerra in Siria, quando alcune delle città più antiche dell’umanità venivano rase al suolo, volevano dimostrare di essere capaci di concedere pochi status di protezione. La stessa EASO, lavorando in tandem con Frontex, iniziò ad esercitare una forte pressione sul sistema di asilo greco, per trasformarlo in un sistema di esclusione generalizzata basato sull’accordo con la Turchia. Ad oggi, sembra che la preoccupazione principale dell’agenzia europea per l’asilo sia proteggere i sistemi d’asilo dai loro possibili beneficiari, e questo è il risultato di un’evoluzione durata anni, dall’EASO alla creazione dell’EUAA, che è di fatto subordinata a Frontex.

Tuttavia, Frontex è stata principalmente – come dicevo – un’entità che ha agito a livello strategico, ad un livello intermedio. Io la considero più un agente di influenza ideologico che un attore che opera concretamente sul campo, quest’ultima parte si sta sviluppando solo recentemente. Sono state le analisi dei rischi e i rapporti periodici di Frontex che sono stati decisivi nella creazione dell’ossessione migratoria europea, fino al punto che qualsiasi problema era da imputare all’immigrazione, dal lavoro nero alla questione ambientale. Non scherzo, si è perfino arrivati a dire che lo spostamento di così tante persone crea problemi ambientale, mentre i mezzi delle polizie – navi, elicotteri, auto – pattugliano h24 tutti i confini d’Europa.

Veniamo alla pubblicazione del rapporto Olaf (Agenzia antifrode della UE) dello scorso ottobre. Cosa ha svelato e perché è stato tanto eclatante?

Il rapporto è stato fondamentale per portare Leggeri alle dimissioni, perché ha dimostrato che Frontex appoggiava le violazioni dei diritti umani alle frontiere in modo sistematico, chiudendo un occhio quando c’erano delle irregolarità che avrebbe dovuto segnalare, falsando la classificazione della gravità degli eventi.

Una delle rivelazioni più importanti della relazione Olaf, almeno per come lo vedo io, è quella riguardante la strage di Pasquetta dell’aprile 2020. Si sommano diversi aspetti critici: la barca era vicinissima all’Italia, l’Italia aveva delle navi capacissime di effettuare il soccorso, ma non ha agito con il pretesto delle acque internazionali. Malta, dal canto suo, non solo ha rifiutato di intervenire ma anche trainato le barche verso le acque italiane, e questo è stato scoperto perché avevano rifornito di acqua i passeggeri. C’era stato un maldestro tentativo di soccorso di una nave privata, in cui sono morte delle persone. Alla lunga, quando la barca è arrivata in Libia c’erano cinque persone morte a bordo dello scafo.

Quindi è un flagrante caso di non assistenza, che comportava la necessità di aprire un rapporto SIR (Serious Incident Report) 3. Tuttavia, l’incidente non fu classificato come di categoria quattro – che segnala la possibile violazione di diritti fondamentali e obbliga l’intervento del Fundamental Rights Officer -, ma come categoria due, ovvero come incidente dall’alto interesse pubblico e politico. Se fosse stato di categoria quattro, sarebbe partita automaticamente l’investigazione da parte dell’ufficiale per il rispetto dei diritti fondamentali, ma l’agenzia voleva mantenersi neutrale, anche per non intaccare i rapporti con Italia e Malta. A me sembra una cosa veramente allucinante, e penso lo sia per chiunque abbia seguito quel caso, in cui per giorni eravamo appesi alle notizie che arrivavano da Alarmphone, che raccontavano delle persone lasciate morire.

L’attività di pattugliamento di Frontex non dovrebbe portare più sicurezza in mare? Al contrario, Frontex nel tempo ha avuto un ruolo nell’arretramento delle attività SAR e nell’abbandono delle persone, senza mai assumersi la responsabilità, che è sempre nazionale. Anche se si tratta di una missione Frontex, la responsabilità è del paese a capo della missione.

Questa condizione di mancata assunzione di responsabilità legale e politica non sta cambiando con l’istituzione del corpo armato autonomo di guardia frontiera?

Esistono agenti Frontex attivi sul campo, piano piano li stanno reclutando e gli stanno dando anche poteri significativi. La cosa anomala – anche se in linea con l’evoluzione dell’agenzia – è che sono attivi soprattutto nei territori dei paesi terzi. Gli accordi sanciti in particolare nei Balcani danno ampio margine di azione agli agenti Frontex e allo stesso tempo provano ad istituire delle immunità: quindi più potere possibile con minori responsabilità. La questione dell’immunità è rilevante perché serve ad incentivare i paesi membri a mettere a disposizione agenti, che sarebbero scoraggiati di fronte al rischio di procedimenti penali. Quindi c’è una logica perfetta e abbastanza diabolica. È quella della ragion di stato e della protezione e l’espansione di queste agenzie europee, che infine sono relativamente nuove.

Le inchieste giornalistiche, tuttavia, hanno ampiamente dimostrato che c’erano anche dei gruppi armati non ufficiali che agivano alle frontiere. C’erano agenti delle forze dell’ordine che agivano fuori dalla loro funzione, e una commistione tra gruppi di estrema destra e agenzie delle forze dell’ordine. Attraverso queste collaborazioni opache si attuava alle frontiere una vera e propria caccia allo straniero, fatta di violenze, umiliazioni, furti. Un tema che emerge è infatti l’effetto di certe politiche sul comportamento delle forze dell’ordine stesse, legato ovviamente alla missione che gli viene messa in mano.

Vedremo se il nuovo corpo speciale diventerà un corpo per “battute di caccia al migrante” nei vari paesi. Dovremo stare attentissimi perché saranno investiti di poteri speciali in quanto agenzia europea. È una cosa che già si sta vedendo negli Stati Uniti con l’ICE (Immigration and Customs Enforcement), che praticamente sta diventando un corpo poliziesco federale fuori controllo: dovrebbe agire alle frontiere, ma avendo un raggio d’azione di circa 100 km dal confine di fatto detiene poteri speciali pressoché ovunque, visto che gran parte delle città più popolose sono sulla costa. E poi piano piano diventa più di una polizia di frontiera. Come Frontex, che dopo le recenti critiche sulla gestione dell’immigrazione, sta dedicando gran parte degli annunci al traffico della droga e delle armi. Un po’ alla volta l’azione si espande.

L’unica istituzione che si è apparentemente opposta alla ragion di stato europea è stato il Parlamento, bloccando l’approvazione del bilancio nello scorso ottobre. Che conseguenza ha avuto questa votazione?

La sospensione del budget del 2020 è un fatto molto significativo, che normalmente avrebbe portato alle dimissioni del direttore esecutivo, se non fosse già dimesso. Non è stata la prima azione del Parlamento Europeo, era già stata istituita una commissione d’inchiesta nel gennaio 2021, mentre importanti iniziative legali venivano intentate da Front-lex 4, sia davanti alla Corte Europea di Giustizia che alla Corte Penale Internazionale 5, riguardo alle eclatanti violazioni dei diritti nell’Egeo e nel Mediterraneo centrale. Ricordo che Frontex, secondo il suo stesso regolamento, ha l’obbligo di sospendere le operazioni in presenza di violazioni dei diritti fondamentali 6.

Da un punto di vista europeo, è necessario anche considerare come lo scoraggiamento dei movimenti secondari abbia notevolmente danneggiato l’area Schengen, con la reintroduzione dei controlli interni, su frontiere non abolite mai del tutto. Per l’Europa è gravissimo perché si tratta, appunto, di smontare l’Europa, di danneggiare l’integrità territoriale dell’Unione nel nome della guerra contro le migrazioni e contro i migranti. Ne vediamo l’esempio oggi, nel conflitto tra Italia e Francia. L’esasperazione della lotta contro l’immigrazione spesso porta i paesi a pensare in un’ottica puramente egoista.

Oltre ad influire sulle frontiere interne e sui rapporti tra paesi dell’Unione, queste politiche migratorie europee cambiano profondamente le relazioni con i paesi esterni, in particolare quelli limitrofi.

Infatti, la tesi che le autorità europee portano avanti è che la questione migratoria non abbia a che fare con le condizioni di vita nei paesi d’origine e le disuguaglianze globali, ma con la mancanza di servizi di frontiera e gestione dell’immigrazione da parte dei paesi terzi. Per evitare che le persone viaggino verso l’Europa, l’Unione stringe continuamente accordi e rafforza le collaborazioni con paesi terzi che di fatto rafforzano i ministeri degli interni e le capacità coercitive di questi governi, di qualsiasi tipo siano. Stiamo vedendo come l’esternalizzazione delle frontiere europee stia provocando dei danni gravissimi per i cittadini turchi, per la stretta autoritaria iniziata nel 2016. In Egitto c’è una situazione simile: la von der Leyen ha annunciato un finanziamento di 80 milioni 7 al regime egiziano per fermare le partenze dei cittadini egiziani che sempre di più salpano verso l’Europa, ma è il regime stesso – così rafforzato dall’Ue – ad essere la causa dell’esilio, con la sua repressione cruenta e le morti extra giudiziali di cui anche l’Italia ha avuto esperienza.

Inoltre, i mezzi che l’Europa fornisce alle polizie per combattere l’immigrazione possono essere al tempo stesso utilizzati contro le società civili. Il Marocco è un esempio fortissimo di tutto ciò. Il caso libico lo lascio da parte perché è talmente ovvio.

E gli effetti negativi della guerra europea alle migrazioni minano non solo la situazione dei cittadini dei paesi terzi, che vedono i loro regimi rafforzati, ma anche l’integrità europea, perché l’ossessione migratoria è diventata il tallone d’achille dell’Europa nei rapporti con i paesi terzi: dal Marocco alla Libia, dalla Turchia alla Bielorussia, fino alla Russia stessa. L’UE può essere sempre attaccata attraverso i migranti perché si è resa ricattabile, ed è la stessa cosa che succede tra Libia e Italia da almeno vent’anni: quando in Italia cambia il governo i libici “aprono i rubinetti” per ottenere più fondi. E questi soldi poi, in situazioni di guerra come quella libica, vanno ad alimentare i conflitti.

Tornando al caso Leggeri, quanto sono state importanti le sue dimissioni? Sono state solo uno specchietto per le allodole, far cadere una testa per non cambiare nulla?

Le sue dimissioni sono state importantissime, perché era un personaggio pericolosissimo che stava diventando una minaccia per la sicurezza europea, essendo al comando di una forza di otto mila guardie di frontiera. Negli anni ha essenzialmente cercato di affermare un sistema di esclusione dai diritti, facendo un continuo uso di dati per creare allarmismo – che la crisi ucraina in pochi mesi ha evidentemente sbugiardato – su come l’entrata di poche migliaia di persone avrebbe distrutto l’Unione europea. Non solo, la retorica di Leggeri si fondava su una sorta di victim blaming, secondo cui le persone vittime delle violenze non dovevano nemmeno lamentarsi, avendo scelto loro di entrare illegalmente. E poi questa complicità con l’estrema destra era un ulteriore problema. Leggeri utilizzava politicamente i movimenti e partiti esplicitamente razzisti in modo ricattatorio verso le altre parti istituzionali, della serie “fate come diciamo noi, perché altrimenti ci sono queste altre persone molto più estreme di noi”.
Comunque, queste dimissioni sono state sicuramente in parte uno specchietto per le allodole, però era veramente andato troppo oltre. Frontex poteva benissimo fare quello che sta facendo senza farsi beccare, perché è stato creato un sistema che la protegge, che è quello di assenza di responsabilità di cui parlavamo prima. È andato troppo oltre con la partecipazione nell’attività di respingimento nel Mar Egeo, con violazioni dei diritti umani che si potevano benissimo evitare perché sarebbero successe uguali anche sotto il controllo greco. È stato un delirio di onnipotenza.
Ora, per quanto riguarda il Mediterraneo centrale, Frontex stessa ha espresso preoccupazioni alla Commissione nel collaborare2 con la guardia costiera libica, dato che potrebbe avere delle ripercussioni sull’agenzia, ma è stata la Commissione ad incoraggiarla a continuare, sostenendo che i libici stavano migliorando le loro performance. Quindi c’è stato un ordine diretto da parte della Commissione. Io credo che Leggeri abbia potuto dare le dimissioni senza che ci fossero delle investigazioni sul suo operato proprio perché era ed è la Commissione a guidare gli eventi. Inoltre, Leggeri oggi può ricattare tutte le persone che gli hanno detto che erano d’accordo col suo modo di operare, a partire da Avramopoulos.

Come ha gestito mediaticamente l’agenzia queste dimissioni e il periodo immediatamente successivo? Nella continuità o nella discontinuità?

Il tentativo dell’agenzia è stato di provare a mettere a tacere tutte le critiche, anche lo scrutinio che sta avvenendo per conto del Parlamento Europeo, di spazzare tutto sotto il tappeto perché “se n’è andato Leggeri”. Si sta provando a dire che “quelli erano tempi vecchi” e che ora ci sarà una situazione molto migliore.
Ma dal rapporto Olaf emerge un’ostilità diffusa e neanche troppo velata all’interno dell’agenzia verso chi si occupava dei diritti umani per conto di Frontex stessa, fino a casi di mobbing fra colleghi. Quindi c’era un clima intimidatorio verso chi per lavoro era incaricato di sorvegliare sul rispetto dei diritti umani, oltre all’ostilità che già arrivava dalle forze di polizia nazionali. Infatti, questi ufficiali avrebbero dovuto mettere in rilievo le mancanze delle polizie locali, osservare e studiare ciò che avveniva ai punti di sbarco e nelle varie situazioni di confine, ma nei loro confronti c’è stato vero e proprio ostruzionismo.
In questo senso, rimane il rischio di intimidazione e potenziale “blacklist” da parte delle polizie nazionali nei confronti degli ufficiali per i diritti umani di Frontex, ovvero che tra polizie ci si scambi informazioni sugli ufficiali “problematici”. Perché la collaborazione tra Frontex e le polizie di frontiera avviene senza frizioni solo se entrambe le parti sono disposte a chiudere un occhio sui chiari casi di violazione dei diritti umani. E di questo c’è sempre stata una forte consapevolezza all’interno dell’agenzia, anche nei suoi più alti livelli teoricamente predisposti alla tutela dei diritti.
Il problema di Frontex infatti sta alla radice, perché dal 2005, quando è stata fondata, è stato tutto un continuo lavoro per legittimare le discriminazioni, una continua giustificazione delle violazioni dei diritti umani sostenute sistematicamente nel tempo, un continuo tentativo di segmentare le popolazioni. Essenzialmente, Frontex dalla sua nascita è promotrice di razzismo.

Quali sono i nuovi orizzonti di sviluppo dell’agenzia? Quale sarà il prossimo passo di questo disegno razzista?

La principale prospettiva di impegno per Frontex è quella delle espulsioni. All’interno dell’agenzia è stata creata la divisione per i rimpatri, ed è già uno dei settori principali. Usando un eufemismo, dicono che devono “ristabilire la credibilità del sistema europeo dei rimpatri”, ma non parlano della violenza che questo comporta. Con questa retorica delicata Frontex sta chiedendo a tutti i paesi, in particolare quelli di prima linea, di ampliare la disponibilità dei posti nei centri di detenzione, ovvero di aprire più CPR, e in Italia sappiamo cosa significano.
L’obiettivo di base è aumentare drasticamente il numero di rimpatri. Il problema è che quando aumentare il numero delle espulsioni diventa l’obiettivo dei governi, diventa meno importante chi espellere. Una volta designato questo obiettivo, infatti, comincia il lavoro di ricerca delle persone da espellere. Nel Regno Unito ne abbiamo avuto recentemente un esempio con il tentativo di deportazione verso la Giamaica di persone arrivate nel paese da oltre cinquant’anni3. Questo caso estremo esplica le conseguenze di una politica volta a massimizzare i rimpatri: diventa meno sicuro lo status, proliferano i motivi per i quali si può perdere la cittadinanza o il permesso di soggiorno, che partono da crimini gravi ma poi piano piano si arriva al punto in cui una rissa da bar può comportare la perdita di un diritto come il permesso di soggiorno.
Per il resto, è evidente come l’interesse maggiore di Frontex sia nella cooperazione con i paesi terzi, nelle missioni nei paesi esterni all’Unione. Questo anche perché gli stati membri non gli hanno permesso di svilupparsi internamente nel nome della sovranità nazionale, poiché non volevano interferenze in tema di sicurezza. Come dicevo precedentemente, Frontex è diventata quasi un’agenzia per le questioni diplomatiche e di politica estera.
Per quanto riguarda il territorio europeo, la prospettiva che si è in realtà già realizzata sono gli stati di eccezione alle frontiere, come è avvenuto in Polonia. Questo significa non solo il mancato vaglio delle richieste d’asilo e la proliferazione dei crimini da parte degli stati, ma anche la non accessibilità per giornalisti e attivisti. Le zone di frontiera diventano così aree militari ad accesso ristretto, e ci sono già delle leggi che stanno provando ad imporre la possibilità di dichiarare lo stato di emergenza in modo semplice e anticipato. Anche questo rientra nella tendenza a far collassare l’immigrazione nella politica estera in termini di difesa e di sicurezza interna.

La progressiva espansione di Frontex continua anche da un punto di vista economico, nonostante la bocciatura del Parlamento. Dall’ordine dei milioni siamo passati a quello dei miliardi, con il budget 2021-2027 che tocca i 5,6 miliardi. Come si spiega questa continua crescita a fronte delle molte criticità ormai riconosciute?

La quantità di fondi che sono andati a questa agenzia è impressionante, soprattutto considerando che dopo dieci anni il suo risultato era deficitario. Ma nel 2014/15, invece di effettuare la dovuta valutazione dopo dieci anni di attività, gli si è cambiato il nome e il regolamento, allargando le competenze e i fondi. Mantenendo le cose in costante evoluzione poi vengono meno anche i cosiddetti “checks and balances”. E la cooperazione con le autorità nazionali era garantita anche dal fatto che la presenza di Frontex assicurava l’arrivo di fondi europei, da poter usare con una certa discrezionalità.
Ma l’espansione economica dell’agenzia è stata supportata perché rientrava nella strategia di espansione delle strutture comunitarie di sicurezza, polizia, cooperazione giudiziaria e immigrazione. L’obiettivo era erodere il ruolo del Consiglio e quindi dei governi nazionali, che nei temi di giustizia e affari interni l’avevano sempre fatta da padrone, e trasferire progressivamente poteri e competenze ad organi europei, come successo aumentando le competenze della Corte di Giustizia Europea in ambito delle politiche GAI con il Trattato di Lisbona, mossa neutralizzata in parte nello stesso trattato dalla creazione del Comitato Permanente per la Sicurezza Interna (COSI), un organo pensato per garantire continuità nell’indirizzo di tali politiche e per sfuggire al controllo di Commissione e CGE. Bisogna quindi capire l’architettura istituzionale UE, la sua divisione dei poteri e le tensioni che l’attraversano, per capire quanto nel lungo periodo l’espansione di Frontex sia cruciale per il rafforzamento dell’Unione.
E questo spiega perché, anche dopo la sospensione del budget per il 2020 e le dimissioni del direttore esecutivo, non sia stata fatta una valutazione approfondita e generale di come questa agenzia sta operando e si sta sviluppando. Infatti, un’analisi seria dovrebbe guardare non solo alle continue violazioni dei diritti, agli scandali e alle complicità, ma anche all’ordinario lavoro ideologico con cui l’agenzia influenza la Commissione, con il tono allarmista dei suoi rapporti che identificano nell’immigrazione tutti i mali dell’Europa.

Ci avviamo verso la conclusione, e ti pongo una questione più generale. Perché è così importante oggi occuparsi di Frontex e delle politiche migratorie dell’UE?

L’immigrazione non ha mai raggiunto un tale livello di importanza per l’Unione europea come negli ultimi anni. È stata rappresentata come un problema, nonostante gli studi economici e demografici dell’Onu dicessero che per l’economia europea era necessario un livello più alto di immigrazione.
A mio parere, uno dei nodi centrali è che “l’emergenza immigrazione” è stata un pretesto per sviluppare le strutture di sicurezza europea. A livello nazionale è stata usata dai governi per accrescere i loro poteri sulle persone, ignorando i limiti sanciti anche dalle costituzioni e dal diritto europeo ed internazionale. Praticamente l’immigrazione è diventata il mezzo per poter fare tutto ciò che non era permesso.
Quindi ci sono stati degli interessi congiunti sia nazionali che europei, interessi che poi entrano in conflitto e scateno politiche di egoismo. Anche i regolamenti come quello di Dublino penalizzano alcuni paesi, ma sono stati fatti in questa logica, perché sapevano che ci sarebbero state molte persone che sarebbero emigrate dai paesi del sud Europa verso i paesi del nord. Ma nel momento in cui ogni Stato ragiona in una logica egoista si rischia di smontare l’Europa, in questo senso l’intervento europeo sull’immigrazione sembra quasi compensatorio.
Come dicevo, non è solo quello che fanno ai migranti, è soprattutto quello che fanno attraverso i migranti. Per esempio, nel rapporto su Europol che abbiamo fatto uscire recentemente, agenzia che ha molti problemi in comune con Frontex. Le due agenzie collaborano sempre di più, soprattutto nella gestione dei dati, attraverso triangolazioni che eludono i limiti di conservazione e di scopo delle informazioni. Il trattamento dati di Europol è scandaloso: profilano centinaia di migliaia di persone che non hanno commesso nessun reato, e quando il Garante europeo per la protezione dei dati (GEPD) ha ordinato di distruggere queste informazioni è intervenuto un regolamento UE per legalizzare l’illegalità4.
Servono più dati possibili per sviluppare soluzioni di intelligenza artificiale allo scopo, per esempio, di far passare come minaccia per la sicurezza o per l’ordine pubblico le persone che invece avrebbero diritto alla protezione. Tra non molto risulterà che chi scappa dall’Afghanistan – non potendogli negare l’asilo – dopo uno screening di massa sarà espulso in quanto minaccia per l’ordine pubblico. E l’ordine pubblico è ancora più preoccupante della sicurezza, perché si può ricondurre non solo alla pericolosità dei soggetti, ma alle reazioni che questi scatenano. Per cui se un gruppo di razzisti farà una manifestazione violenta fuori da un centro di accoglienza, il problema di ordine pubblico sarà il centro di accoglienza, non i razzisti.
Questo fatto di unire tutti i discorsi di criminalità organizzata, terrorismo, sicurezza, ordine pubblico e immigrazione da veramente carta bianca alle autorità. Con questi processi, che devono essere garantiti da una forte base di dati interoperabili, l’UE sta implementando un moderno progetto di governabilità della popolazione. Da qui viene il resto, come la normalizzazione dei rimpatri.

Per terminare, ti faccio la classica domanda: che fare?

Serve abolire Frontex, perché quello che sta facendo è ciò per cui è stata creata. Però è importante sottolineare le responsabilità del modello scelto a livello europeo. Un po’ come in tutti i processi istituzionali i cambiamenti sono sul lungo periodo, ma hanno una direzione chiara e bisogna “stargli addosso”.
Per me è stato molto importante vedere tutte queste inchieste, vedere che il Parlamento Europeo prestava un po’ di attenzione, vedere che ogni tanto siamo riusciti a scalfire il muro di silenzio e di opacità. Però ricordiamoci che il problema di Frontex è altro. Siamo di fronte ad un’espansione gigantesca dell’agenzia: stanno concludendo accordi con tutti i paesi terzi, dai Balcani all’Africa centrale. In Senegal si vuole implementare un sistema di schedatura biometrica di massa della popolazione, finalizzata a facilitare i rimpatri. Siamo al punto in cui i governi stranieri attuano politiche estremamente costose per permettere agli europei di maltrattare i loro cittadini. È veramente folle.
Di fronte a tutto ciò, dobbiamo creare delle reti che siano il negativo del modello europeo, che ricostruiscano i ponti che loro vogliono tagliare. Come Statewatch, per esempio, siamo coinvolti in alcune reti internazionali su vari temi, come la rete Migreurop, che è euroafricana e composta da realtà che operano in ambiti e luoghi diversi. Dobbiamo provare a costruire una comunità transnazionale e transcontinentale, unirci contro chi ci vuole divisi.

Grazie veramente per questa tua analisi, che è stata capace di guardare allo sviluppo di Frontex nel lungo periodo, di scavare in profondità nei processi che la determinano e di inscriverla in una più ampia cornice europea politica ed istituzionale. Le tue parole sono importanti per capire cos’è Frontex e soprattutto per capire cos’è l’Europa. Grazie!

Grazie a voi per l’interesse. Penso sia importante produrre contenuti critici come fate voi, “stargli addosso”, appunto. Rimango a disposizione. A presto!

Note:

  1. Scarica il rapporto
  2. Frontex and deportations, 2006-21, Statewatch (12 gennaio 2023). I dati relativi a 16 anni di operazioni di deportazione di Frontex mostrano il ruolo in espansione dell’agenzia. Le infografiche mostrare il numero di persone deportate nelle operazioni coordinate da Frontex, gli Stati membri coinvolti, gli Stati di destinazione e i costi
  3. Il rapporto di Statewatch: Empowering the police, removing protections: the new Europol Regulation (novembre 2022)
  4. Un famoso caso giudiziario
  5. Scarica il rapporto
  6. EU border agency suspends operations in Hungary, Politico (17 gennaio 2021)
  7. Per approfondire i regolamenti e i meccanismi attraverso cui Frontex (non) tutela i diritti umani
  8. First Ever Case vs. Frontex: Terminate Operation in Greece, Court of Justice of the European Union, May 2021
  9. EU: Legal actions pile up against Frontex for involvement in rights violations, State Watch (febbraio 2021)
  10. Secondo l’articolo 46(4) del Regolamento di Frontex del 2019
  11. EU to provide €80 million to Egyptian coast guard, State Watch (settembre 2022)

 

da Melting Pot Europa

 

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