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I medici non capirono che Cucchi stava morendo

Il primo medico a incontrare Cucchi fu il medico della Città giudiziaria ma di fronte a lui, Stefano non si sarebbe spogliato. Si sarebbe limitato a giustificare una «serie di lesioni traumatiche» attribuendole a «un non meglio precisato episodio traumatico accidentale». Erano le 14.05 del 16 ottobre 2009, l’udienza di convalida era finita alle 13. «Per la prima volta a quell’ora sono documentate lesioni su quel corpo», dice a Liberazione , il senatore Pd, Ignazio Marino, presidente della commissione che, nell’ambito dell’indagine sul servizio sanitario nazionale, ha indagato sulla morte del trentunenne romano. Stefano era stato arrestato la sera prima e aveva trascorso la notte in una caserma dei carabinieri dove ha avuto un malore. Così alle 5 arrivò un’ambulanza. Il personale trovò il paziente disteso sul letto di una camera di sicurezza. Rifiutò il ricovero ma aveva tremori, forse una crisi di epilessia, lui ne soffriva. Quando lo vide in aula, suo padre, Giovanni, notò subito gli occhi gonfi come di uno che aveva preso botte.
Chi lo visitò davvero fu il medico di Regina Coeli. Erano le 16.45. «Deve uscire subito!», avrebbe esclamato questo dottore appena si rese conto delle condizioni del detenuto appena arrivato dal tribunale.
Quando il pm lo fa cercare a Regina Coeli sarà detto ai carabinieri che quel camice bianco era all’estero. Non era vero. Ma allora perché in procura nessuno sa se esiste un fascicolo per omissione di atti d’ufficio visto che il senatore Marino ha sporto regolare denuncia?
Non è l’unica stranezza del caso. Nelle carte della commissione, desecretate ieri, Marino evidenzia un altro fatto strano: «Il ricovero al Pertini formalizzato da un dirigente di Via Arenula resosi disponibile». Una procedura sicuramente inedita. Un passo indietro: da Regina Coeli, quel pomeriggio, Cucchi va al Fatebenefratelli dove gli trovano due fratture alla terza vertebra lombare e a livello coccigeo. Dopo una notte in galera (strano che abbia preferito tornare in cella piuttosto che starsene al pronto soccorso), torna dolorante al Fatebenefratelli. Da lì il ricovero «inedito» alla struttura penitenziaria del Pertini dove «per sottolineare la propria esigenza di vedere l’avvocato di fiducia il paziente cominciò a manifestare opposizione alla somministrazione di cure e cibo». Così si legge nelle carte desecretate che potrebbero essere piene di altre sorprese come il rapporto interno del Dap che ci ha rivelato, ad esempio, il degrado dei sotterranei di Piazzale Clodio e il verbale zeppo di errori con cui fu convalidato l’arresto di Cucchi.
L’«opposizione» del paziente fu saltuaria, dovuta alla protesta ma, secondo la commissione, ha «impresso un’evoluzione completamente diversa del quadro medico». Il rene di Stefano si bloccò, si giunse a un punto di non ritorno. In una manciata di giorni perse 10 chili. Morì forse alle tre del 22 ottobre, lo troveranno tre ore dopo. Aveva addosso la stessa roba della sera dell’arresto. I traumi c’erano, la commissione lo mette nero su bianco, ma non sarebbero stati tali da mettere in pericolo la vita del paziente. «La causa ultima della morte di Cucchi non è una causa traumatica ma metabolica». I medici del Pertini dovevano capire la gravità delle condizioni, cosa che Stefano non era in grado di fare, non capiva che stava morendo. Ai medici del Pertini si potrebbe imputare «la mancata individuazione dell’urgenza e gravità del problema la sera del 21 ottobre».
Dunque, non c’è più il segreto sugli atti della commissione Marino. Entro due giorni quelle carte viaggeranno sulla rete, per ora viaggiano verso Piazzale Clodio. Ma c’è voluto più di un mese – dall’approvazione della relazione finale il 17 marzo – perché i commissari si decidessero a spedire quegli atti alla Procura di Roma dalla quale, entro pochi giorni ci si aspetta la chiusura delle indagini e il rinvio a giudizio per gli indagati, finora tre medici e sei infermieri, per l’omicidio del trentunenne romano.
La desecretazione non è stata indolore: da un lato le opposizioni favorevoli a una linea di trasparenza, dall’altra il Pdl che ha fatto slittare questo voto per settimane. S’è detto che forse voleva tenere per sé certe domande troppo inquisitorie. S’è temuto ci fossero pressioni dell’ordine dei medici o di qualcuna delle amministrazioni coinvolte. Il Pdl ieri ha detto che avrebbe voluto garantire le persone audite «e alle quali avevamo assicurato che tutto era secretato». Medici ma non solo. Ma Ignazio Marino insiste a dire che la relazione potrebbe aiutare i pm. Tempi e modi della relazione finale, approvata all’unanimità, sono un «risultato eccellente», non fosse la pecca della faticosa desecretazione. «E’ giusto che il Paese sappia – insiste Marino al telefono con Liberazione – giusto anche nei confronti degli indagati che possono esercitare al meglio il proprio diritto di difesa, giusto nell’ottica della leale collaborazione tra i poteri».
Restano intatti i coni d’ombra di questa vicenda: perché, nonostante un verbale pieno di errori (su data e luogo di nascita e sulla mancanza di fissa dimora), una giudice negherà i domiciliari a un ragazzo che arrivò in aula già coi segni di un pestaggio e senza l’avvocato di fiducia che aveva designato la sera prima? Perché il giovane, inspiegabilmente, firmerà a mezzanotte del venerdì per tornare in cella piuttosto che stare al pronto soccorso del Fatebenefratelli? Perché gli fu impedito di comunicare con l’esterno?

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