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Guglionesi (Cb): Tunisino pestato al bar. Ancora in coma, sentiti i testimoni. L’avvocato lancia un appello

Saiffedine Chaffar, il giovane tunisino pestato selvaggiamente in un bar di Guglionesi il 4 novembre scorso, è ancora in coma, attaccato ai respiratori artificiali, nella clinica di San Giovanni Rotondo. Le sue condizioni negli ultimi giorni hanno subìto un nuovo drammatico peggioramento. Le speranze che si svegli sono sempre più flebili, e mentre proseguono i pellegrinaggi dei familiari dal centro bassomolisano dove vivono fino all’ospedale pugliese, vanno avanti anche le indagini dei magistrati. L’inchiesta è nelle mani del sostituto procuratore Luca Venturi, che la settimana scorsa ha sentito alcuni testimoni nel palazzo di Giustizia frenano. Persone che quel pomeriggio domenicale hanno assistito all’incredibile episodio, hanno visto il gestore del bar, Rosario Renzetti, avvicinarsi al ragazzo e picchiarlo, causandogli probabilmente il danno alla testa che mezz’ora più tardi lo ha mandato in coma. Il sospetto è che Rosario non fosse solo, che ci fossero altre persone con lui. E’ questo che sta cercando di accertare la magistratura, anche se per il momento, almeno ufficialmente, solo Rosario Renzetti risulta iscritto sul registro degli indagati. Si stanno vagliando però anche le posizioni dei due fratelli di Rosario, Michele e Vincenzo, rispettivamente finanziere e agente di polizia penitenziaria. Ormai assodato che erano presenti nel bar quel pomeriggio, gli inquirenti lavorano per capire che ruolo hanno avuto nella vicenda, e soprattutto se hanno avuto una qualche responsabilità nell’accaduto.
L’avvocato: “Chi sa, parli”. “L’omertà è reato. Chi tace, rischia”. Sotto accusa i silenzi dei testimoni che domenica 4 novembre hanno assistito al pestaggio. L’indagine si allarga e si sta valutando la posizione dei fratelli di Renzetti, un finanziere e un agente di polizia penitenziaria. Per il momento l’unico indagato resta Rosario.
Guglionesi. Guglionesi paese di omertosi? La domanda aleggia sulla bocca di tutti in questo piccolo centro di seimila abitanti che domenica 4 novembre ha fatto da teatro al massacro di un giovane tunisino, da dieci giorni in coma nel reparto di rianimazione di Casa Sollievo della Sofferenza a San Giovanni Rotondo. Cosa è accaduto davvero quel pomeriggio, quando Saifeddine Chaffar è entrato per rivendicare dal barista Rosario Renzetti la sua paga di bracciante nei campi e ha avuto, in cambio, calci e pugni sferrati con insospettabile tecnica, che l’hanno ridotto a un vegetale senza nemmeno lasciare segni esteriori sul suo corpo? C’era qualcun altro con lui? E che ruolo ha avuto nel pestaggio? Perchè, se ha visto, non ha mosso un dito per impedire quel massacro, tanto che a metter fine al pestaggio ci ha pensato un giovane che si è fatto largo nel capannello di gente che accerchiava l’aggressione? Domande che a Guglionesi non trovano risposte adeguate. I carabinieri della stazione locale stanno lavorando senza tregua a questo caso, e hanno già ascoltato una ventina di testimoni. Persone che quel giorno, a quell’ora, c’erano e devono aver visto qualcosa. Eppure le testimonianze sono frammentarie, incerte e in qualche caso contraddittorie. Il sospetto che ci sia una reticenza dietro il silenzio degli spettatori ha preso corpo già domenica scorsa sull’altare della Chiesa Madre, quando il parroco don Gabriele si è appellato al senso civico e alla fratellanza che dovrebbe contribuire ad accertare la verità. Adesso anche il legale che tutela gli interessi della vittima lancia un messaggio contro l’omertà: «Chi ha visto, chi sa cosa è accaduto, parli». L’avvocato Giuseppe D’Urbano usa parole chiare: «Chi sa è opportuno che sappia anche che il proprio comportamento è penalmente sanzionabile in varie forme, e sicuramente non mancherà chi farà valere tale responsabilità». Il legale lascia intendere che un silenzio omertoso potrebbe essere perseguito ai sensi del codice penale, per i reati di false informazioni o favoreggiamento personale. «Non è una minaccia – dice ancora D’Urbano – ma per ora è solo un monito, un richiamo alla responsabilità personale e civica a cui nessuno deve sottrarsi». Intanto si stanno vagliando le posizioni dei due fratelli di Rosario Renzetti, Michele e Vincenzo, rispettivamente finanziere e agente di polizia penitenziaria. Ormai assodato che erano presenti nel bar quel pomeriggio, gli inquirenti lavorano per capire che ruolo hanno avuto nella vicenda, e soprattutto se hanno avuto una qualche responsabilità nell’accaduto. Il fatto che siano esponenti delle forze dell’ordine rende l’indagine ancora più delicata ma nello stesso tempo amplifica la portata dell’episodio, che per questa ragione è anche finito sulla scrivania del ministro degli Interni. Una interrogazione parlamentare tesa a far luce sui fatti di domenica 4 novembre chiede di conoscere il ruolo che hanno avuto i fratelli, col duplice obiettivo di accertare le responsabilità e sgombrare il campo dall’ombra di un sospetto che in paese diventa ogni giorno più pressante. Mentre il pm Luca Venturi sta valutando i documenti e le informazioni raccolte, la vita di Saifeddine Chaffar è appesa a un filo che diventa ogni giorno più sottile. Attaccato alle macchine, collegato a un respiratore artificiale, privo di calotta cranica per via della emorragia che ha alterato il cervello inondato dal sangue, il giovane trentunenne lotta contro una morte che i medici non escludono. Se il suo cuore si fermerà, come si teme e come temono adesso anche i familiari, l’accusa di lesioni gravissime a carico del gestore del locale diventerà un’accusa di omicidio. «Vogliamo la verità e vogliamo sapere cosa a successo a Saifeddine» dicono i parenti, tra cui la moglie tornata dalla Tunisia in questa circostanza dolorosa e inimmaginabile.

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