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Ergastolo ostativo. La chiamano riforma ma è una condanna a morte

Alla Camera una maggioranza fatta per metà di reazionari forcaioli e per l’altra metà di tremebondi pusillanimi ha fatto solo finta di seguire le indicazioni della Corte Costituzionale contro il carcere come tomba.

di Tiziana Maiolo

Pena di morte. Qualcuno avrebbe dovuto gridarlo, alto e forte, nell’aula di Montecitorio, dove è andata in scena la grande ipocrisia di una maggioranza fatta per metà di reazionari forcaioli e l’altra di tremebondi pusillanimi, che ha votato (con poche eccezioni) sull’ergastolo ostativo un testo che ha preso a sberle la Consulta, la Corte Europea dei diritti dell’uomo e la stessa Costituzione. L’Alta Corte aveva detto al Parlamento che il carcere non può avere il ruolo del becchino e seppellire i suoi morti. Aveva detto: fate una legge perché chiunque, proprio chiunque, dopo un certo, lunghissimo periodo di tempo, deve poter ritrovare la propria libertà.

E l’unica condizione, insieme al trascorrere del tempo, deve essere una relazione che abbia accertato, da parte della squadra di giudici, psicologi, educatori e tutti coloro che si occupano del percorso di rieducazione del condannato, il cambiamento della persona. Aveva aggiunto, la Corte Costituzionale: cambiate quella legge che subordina al “pentimento”, alla collaborazione del detenuto con la magistratura, la possibilità di ottenere i benefici previsti dalla legge che nel 1975 riformò l’ordinamento penitenziario e la liberazione condizionale. principio.

Cambiatela perché è incostituzionale. Il Parlamento dunque era costretto a legiferare, entro il 10 maggio 2022. Suo malgrado, dobbiamo purtroppo dire, perché tutta la discussione di questi mesi, prima di tutto nella commissione giustizia della Camera e con le audizioni di selezionati magistrati, cioè quelli del partito dei pm, ha preso da subito una direzione precisa: boicottare. Far finta di riformare, dare un contentino, ma proprio il minimo, a questi rompiscatole dei giudici della Corte Costituzionale, ma introdurre nella nuova norma una serie di condizioni tali da rendere impossibile a chiunque sia condannato per reati “ostativi” poter godere dei benefici previsti dall’Ordinamento penitenziario.

Anzi, devono aver pensato alcuni deputati, cogliamo l’occasione per peggiorare la norma esistente, per esempio portando da 26 a 30 il numero di anni di carcere già scontati, dopo i quali si potrà chiedere la liberazione condizionata. Diciamolo chiaro: chi vuole il carcere eterno, quello con porte e finestre chiuse per sempre, sotto sotto chiede la pena di morte. Non solo la morte sociale, ma proprio quella fisica e violenta che toglie la vita e l’ultimo respiro. Proprio quello del bellissimo film di Jean-Luc Godard del 1960 con Jean-Paul Belmondo.

Difficile trovare qualcuno che si dica esplicitamente per la pena capitale, così come nessuno potrebbe mai affermare di essere favorevole alla tratta degli schiavi. Ma bisogna anche essere consapevoli del fatto che dire “ergastolo ostativo”, termini che ai più non significano niente, vuol dire solo pena di morte. E condizionare la possibilità di vedere un finale diverso, al “pentimento” (che è umiliazione e tradimento), come dice la legge esistente, è un prezzo molto alto, se non sei un mercenario dentro di te.

Vediamo allora, su questo punto, che cosa dice il testo licenziato dalla Camera. Nei fatti, accoglie in pieno la mentalità liquidatoria dei vari Caselli, Di Matteo, Scarpinato, cioè i nomi più prestigiosi dell’antimafia militante, i quali ritengono che il mafioso lo sarà per sempre. Essendo magistrati, o ex, “democratici”, sarebbero indignati se qualcuno desse loro dei razzisti. Pure, loro ritengono che una certa tipologia di persona non possa mai cambiare, a meno che non si inginocchi e non avvii una Trattativa, un mercanteggiamento interessato con lo Stato. Altrettanto scandalizzati sarebbero se si imputasse loro una simpatia per la pena capitale. Provino a parlarne con qualche analista, se non riescono a scrutarsi dentro da soli.

La commissione giustizia della Camera, guidata dal grillino Mario Perantoni, ha dato molto ascolto alle sirene in toga. Del resto ieri la responsabile giustizia del partito di Grillo, Giulia Sarti, ha detto esplicitamente “è una legge che non avremmo voluto fare” e “non condividiamo le decisioni della Corte Costituzionale e della Cedu”.

Ma siamo alle non-notizie. Loro sono così. Le notizie vengono dagli altri partiti di governo, come il Pd e Forza Italia, che hanno partecipato a un vero banchetto di lacci e lacciuoli che rendono impossibile per chicchesia sia in carcere da trent’anni riuscire ad accedere ai benefici penitenziari. Prima di tutto bisogna dimostrare di non avere più rapporti con la criminalità organizzata. Qualcuno può spiegarci come si fa? Si chiede una dichiarazione certificata a Matteo Messina Denaro? Poi – e questo sfiora la follia – occorre dare la certezza di non correre il rischio di intrattenere in futuro relazioni pericolose. Qui potrebbero essere chiamati a testimoniare streghe e maghi forniti di sfere di cristallo.

Ma l’assurda tortura non finisce qui. Perché conviene avere anche disponibilità economiche e aver risarcito le vittime, stando poi ben attenti, se si dichiara di non averne la possibilità perché ci saranno accertamenti patrimoniali sul detenuto e su tutti il suo nucleo familiare. Ma non ci sono solo le regole-capestro a rendere impossibile la speranza per il detenuto “ostativo”.

C’è anche un altro soggetto che, insieme alla Cedu e alla Corte Costituzionale esce mortificato dalla legge licenziata dalla Camera. È il giudice di sorveglianza, negli ultimi tempi sempre più sospettato, specie da parte del partito dei pm, di intelligenza con il nemico. La competenza per la concessione dei benefici è spostata dal giudice monocratico a quello collegiale, cioè al tribunale. È chiaro che questa decisione dimostra la sfiducia nei confronti di coloro che sono in grado più di altri di conoscere e giudicare il percorso riabilitativo di ogni singolo detenuto.

E per fortuna che un sospetto di incostituzionalità, per palese violazione del principio del giudice naturale, ha impedito al Parlamento di aderire alle proposte di alcuni procuratori, che avrebbero voluto centralizzare a Roma un unico tribunale. Che avrebbe dovuto decidere sul detenuto di Caltanissetta come su quello di Aosta. Mai visti, ovviamente. Ma tanto, che cosa importa, visto che il mafioso non cambia mai e che il verdetto negativo è scontato? E che con queste regole gli ergastolani ostativi sono condannati a morte? La subalternità dei parlamentari al partito dei pm trova la massima espressione in un altro punto della riforma. Qualcosa di simile aleggiava già nei giorni in cui il ministro Bonafede, in tempo di pandemia, aveva frettolosamente condizionato ogni provvedimento di sospensione della pena o di detenzione domiciliare al parere dei pm “antimafia”.

La procedura di questa finta riforma prevede infatti che per la concessione dei benefici venga acquisito il parere di quel pm che trent’anni prima – magari nel frattempo pensionato o deceduto aveva svolto le indagini sul detenuto. E, in casi gravi, sarà consultato anche il procuratore nazionale antimafia. Siamo al ridicolo, sentiamo anche il papa, che sicuramente è più saggio di tutti questi signori.

Ma dove erano, quelli che si dichiarano garantisti (e onore a Riccardo Magi, Enrico Costa, Lucia Annibali e tutto il gruppo di Italia Viva e a Enza Bruno Bossio e i pochi del Pd che hanno mostrato dignità), quelli di Forza Italia per esempio, mentre si scrivevano queste ridicolaggini? Cui è stato aggiunto l’ultimo sberleffo, con la votazione di un emendamento che taglia fuori comunque dal provvedimento tutti coloro che sono reclusi al 41 bis. Complimenti. Qui Montecitorio, il regno dei grillini.

da il Riformista

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