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Diaz, dalla polizia un muro di omertà

Un coro di proteste contro le parole a mezza bocca pronunciate da De Gennaro. L’accusa del pubblico ministero Zucca: «La polizia ha sempre remato contro, I vertici non ci aiutarono nemmeno a identificare un agente genovese, presente alle udienze». E ora in molti chiedono «dimissioni». Ma il Pd tace.

«Il nostro è un sistema processuale estremamente garantista e quindi il risultato della sentenza va considerato giusto, una sentenza definitiva va rispettata da tutti»: ieri il ministro della giustizia Paola Severino, a Genova per un sopralluogo al carcere di Marassi dove si moltiplicano i suicidi e sono reclusi 795 anziché 450 detenuti, ha ribadito che la sentenza Diaz non si tocca. Ma le dichiarazioni di domenica scorsa dell’allora capo della polizia Gianni De Gennaro hanno creato il putiferio: premesso che «le sentenze della magistratura devono essere rispettate ed eseguite, sia quando condannano, sia quando assolvono», non si assume nessuna responsabilità dei fatti. «Resta comunque nel mio animo un profondo dolore per tutti coloro che a Genova hanno subìto torti e violenze – scrive l’attuale sottosegretario alla presidenza del consiglio dei ministri con delega ai servizi segreti – ed un sentimento di affetto di umana solidarietà per quei funzionari di cui personalmente conosco il valore professionale».

Perciò ne chiedono le dimissioni i segretari di Sel, Nichi Vendola, e di Rifondazione comunista, Paolo Ferrero, insieme all’ex portavoce del Genoa Social Forum, Vittorio Agnoletto, e al Comitato Verità e giustizia.

Enrico Zucca, il pm che con Francesco Albini Cardona, condusse le indagini sull’assalto alla scuola avvenuto nella notte del 21 luglio 2001, commenta con una domanda: «Chi era a capo della polizia in occasione del più grave episodio di violazione dei diritti umani dal dopoguerra ad oggi, in Italia?». E aggiunge che «le parole pronunciate dal procuratore generale Pietro Gaeta sono le prime che hanno squarciato il velo della teoria dei complotti, alimentati dalla stampa amica. Gaeta ha messo in chiaro che nelle carte di questo processo non c’è nessuna teoria, nessun capro espiatorio, ci sono piuttosto prove concrete contro singole persone: noi siamo partiti dal sangue nella scuola, ne abbiamo chiesto il perché a chi era andato su quei luoghi e abbiamo chiesto a chi aveva le molotov dove le aveva trovate».

Quanto alla collaborazione del Viminale e a chi oggi si chiede come mai non furono identificati i 400 poliziotti coinvolti nell’operazione, Zucca aggiunge: «Fra le violazioni dei principi della Corte europea c’è anche il fatto che gli apparati dello Stato, lungi da permettere un’indagine rigorosa collaborando con la magistratura, hanno ostacolato l’indagine. È una parte delle scuse mancanti. Basta rileggere quello che la polizia, dai vertici fino ai gradi inferiori, diceva a proposito dei pubblici ministeri nelle telefonate intercettate. E d’altra parte persino nella sentenza di primo grado si dice che la polizia non ha collaborato». Per non parlare del fatto che dei 400 agenti in procura arrivarono le foto dei medesimi all’epoca della leva, dieci, vent’anni prima dei fatti e la responsabilità penale in Italia è personale e non di gruppo. Per chiarire meglio l’atmosfera del duello tra polizia e magistrati, è anche utile ripercorrere la vicenda dell’uomo con la coda di cavallo. L’agente è visibile dentro la Diaz, durante il pestaggio, in un filmato ripreso da un attivista inglese, che riuscì a nascondersi fra i serbatoi dell’acqua sul tetto della scuola Pascoli. È il filmato di Indymedia in cui si vedono le truppe d’assalto sfondare il cancello ed entrare nella scuola. Coda di cavallo ha una maglia da rugby a righe e un bastone. «Ricordo che nel momento in cui ci fu un contatto con Manganelli e con De Gennaro, ancora prima di chiudere le indagini, chiesi di collaborare almeno su aspetti dirompenti per l’immagine della polizia – dice Zucca oggi – Ci fu da parte loro un impegno direi solenne ad identificare almeno l’agente con la coda e i firmatari del verbale dell’arresto». Com’è finita lo sappiamo: dei 14 firmatari la procura riuscì con difficoltà a mettere insieme i nomi di 13 su 14 e coda di cavallo fu riconosciuto quasi per caso, anni dopo, da un consulente dei legali perché saltò fuori che era della questura di Genova e assisteva regolarmente al processo. Il reato ormai era prescritto, non si aprì nessun fascicolo. Ma le questure italiane intanto avevano risposto che non lo conoscevano e quella di Genova non rispose mai. «Un aspetto emblematico e simbolico», conclude Zucca.

La sentenza definitiva accoglie le condanne dell’appello. I reati di lesioni, il concorso in lesioni e prima la calunnia (che insieme al falso erano i cardini dell’accusa), risultano prescritte, ma dei 25 poliziotti arrivati all’ultimo grado nessuno è stato prosciolto.
 
Alessandra Fava da il manifesto

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