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Decreto anti rave: incompetenza o malafede?

Il decreto legge anti raduni, emanato in tutta fretta dal Governo, è, secondo la generalità dei giuristi, inidoneo ai fini dichiarati e denso di pericoli per le libertà di riunione e manifestazione. Ma il Governo e la maggioranza fanno quadrato e lo difendono a oltranza. Difficile dire se, in questa operazione, prevalga l’incompetenza o la malafede. O se siamo di fronte al trionfo di entrambe.

di Livio Pepino

Com’era inevitabile, il decreto legge “anti raduni” varato nei giorni scorsi dal Governo ha provocato, oltre alle reazioni di una parte dell’opposizione (cresciute con il passar dei giorni), le critiche pressoché unanimi del mondo dei giuristi: dall’Associazione dei professori di diritto penale  a Magistratura democratica  per citare le più note. Difficile che così non fosse alla luce del più elementare buon senso e dell’art. 17 Costituzione secondo cui: «I cittadini hanno diritto di riunirsi pacificamente e senz’armi. / Per le riunioni, anche in luogo aperto al pubblico, non è richiesto preavviso. / Delle riunioni in luogo pubblico deve essere dato preavviso alle autorità, che possono vietarle soltanto per comprovati motivi di sicurezza o di incolumità pubblica». Di ciò già si è detto ma qualche ulteriore rilievo si impone a seguito delle reazioni alle critiche dei più autorevoli rappresentanti del Governo e della maggioranza.

La difesa dell’indifendibile è stata la regola, fatta eccezione per la “voce dal sen sfuggita” di un esponente di secondo piano di Fratelli d’Italia, Federico Mollicone, affrettatosi a dichiarare che «questa norma può essere applicata giustamente ai palazzi occupati pubblici o privati». Alle esternazioni trionfalistiche della presidente del Consiglio («È una norma che rivendico e di cui vado fiera perché l’Italia ‒ dopo anni di governi che hanno chinato la testa di fronte all’illegalità ‒ non sarà più maglia nera in tema di sicurezza. È giusto perseguire coloro che ‒ spesso arrivati da tutta Europa ‒ partecipano ai rave illegali nei quali vengono occupate abusivamente aree private o pubbliche, senza rispettare nessuna norma di sicurezza e, per di più, favorendo spaccio e uso di droghe») hanno, infatti, fatto seguito quelle, assolutamente allineate, dei suoi luogotenenti di governo, a cominciare dal ministro della Giustizia sedicente garantista Carlo Nordio («La norma tutela i beni giuridici dell’incolumità e della salute pubblica, nel momento in cui questi beni sono esposti a un pericolo. Essa non incide, né potrebbe incidere minimamente sui sacrosanti diritti della libera espressione del pensiero e della libera riunione»), da quello dell’Università Anna Maria Bernini («Questa norma non si occupa di manifestazioni di dissenso nelle scuole o nelle facoltà, non ha alcunché da spartire») e dal sottosegretario alla Giustizia Francesco Paolo Sisto («La norma vuole punire solo i rave, è evidente che le scuole e le piazze devono essere escluse da questa norma, deve essere chiaro che la libertà di pensiero non deve essere conculcata dove non c’è uso di violenza»). E non sono stati da meno i colonnelli dei partiti della maggioranza, da Fabio Rampelli di Fratelli d’Italia («La norma sui rave non può essere affiancata ad altre manifestazioni») all’immancabile forzista Maurizio Gasparri («Siamo contrari ai rave party della droga. Servono norme. Ora all’estero vedono l’Italia come ventre molle per la mancanza di sanzioni che fanno da deterrente»).

La sequenza delle prese di posizione è tanto granitica quanto surreale.

Primo. Il testo dell’ennesimo articolo bis del codice penale non contiene alcun riferimento, nemmeno indiretto, ai rave, comunque definiti, e parla esclusivamente di “raduni” (cioè di «pubbliche manifestazioni di carattere vario, festeggiamenti, competizioni sportive ecc.»: ), pur in un contesto caratterizzato da un inedito preambolo finalizzato alla definizione delle condotte sanzionate, da cui si apprende – incredibile ma vero – che l’invasione consiste in… un’invasione («l’invasione di terreni o edifici per raduni pericolosi […] consiste nell’invasione arbitraria di terreni o edifici altrui, pubblici o previsti, commesso da un numero di persone superiore a 50, allo scopo di organizzare un raduno quando dallo stesso può derivare un pericolo […]»). Ora, se l’obiettivo della norma fosse stata la lotta contro i rave illegali e, per singolare insipienza degli estensori, nel testo fosse stato scritto tutt’altro, razionalità vorrebbe che, scoperto l’errore, lo si fosse corretto immediatamente posto che qualunque studente di giurisprudenza sa che «nell’applicare la legge non si può ad essa attribuire altro senso che quello fatto proprio dalle parole secondo la connessione di esse» (art. 12 delle preleggi) mentre l’intenzione del legislatore è un semplice criterio interpretativo ausiliario. Eppure, forse perché troppo impegnati ad esternare, i nostri brillanti legislatori d’urgenza hanno inviato il testo alle Camere per la conversione senza accompagnarlo con alcun emendamento chiarificatore…

Secondo. Nell’art. 434 bis del codice penale non solo non c’è alcun richiamo ai rave ma manca qualsivoglia riferimento agli stupefacenti, la cui circolazione fuori controllo in kermesse musicali informali sarebbe – secondo i nostri ineffabili e loquaci legislatori d’urgenza – il bersaglio della previsione normativa. V’è, in questa impostazione una rozza e strumentale semplificazione ché la diffusione di sostanze si affronta e contiene con interventi educativi e tecniche di riduzione del danno ben più che con interventi repressivi e/o grida di manzoniana memoria. Ma, anche ad accettare la logica della risposta repressiva, secondo cui vietare è sinonimo di impedire, la norma in esame è del tutto incongrua in quanto lascia indisturbata la circolazione di droghe nelle discoteche e nei rave autorizzati dai proprietari di terreni o edifici (magari dietro lauto compenso), che pure è quantitativamente assai più rilevante. Se davvero la finalità perseguita fosse l’introduzione di un deterrente alla circolazione di droghe nelle realtà del divertimento (giovanile e non) sarebbe stata opportuna, casomai, una ponderata rimodulazione dell’art. 79 legge stupefacenti, che attualmente punisce «chiunque adibisce o consente che sia adibito un locale pubblico o un circolo privato di qualsiasi specie a luogo di convegno di persone che ivi si danno all’uso di sostanze stupefacenti». Ma di ciò non v’è alcuna traccia nel decreto legge né in (inesistenti) emendamenti governativi.

Terzo. In ogni caso, la nuova norma attribuisce all’autorità di polizia e alla magistratura «una discrezionalità che rischia seriamente di essere declinata nella forma dell’arbitrio, con buona pace della funzione di orientamento della norma penale, della prevedibilità della decisione giudiziaria, dell’uniformità applicativa e della parità di trattamento» (così l’Associazione dei professori di diritto penale) e prevede sanzioni all’evidenza sproporzionate (ché sarebbe difficile definire altrimenti la pena minima di tre anni di reclusione prevista, ad esempio, per gli organizzatori di una festa all’aperto di due classi che vogliono festeggiare all’aperto e con sottofondo musicale la raggiunta maturità). Anche sotto questo profilo la contraddizione con l’obiettivo dichiarato di ridurre e determinare in modo rigoroso l’area del diritto penale non potrebbe essere più evidente.

In conclusione, il testo dell’art. 434 bis e le reazioni alle critiche dei suoi estensori e committenti pongono inevitabilmente una domanda concernente la prevalenza, nell’operazione complessiva, dell’incompetenza o della malafede (della serie “proviamoci, buttiamo il sasso e, se se ne accorgono, ritiriamo la mano…”). Difficile dirlo. E ancor più arduo stabilire quale delle due condizioni sia più preoccupante. Ma, forse, è un esercizio non necessario ché i fatti dimostrano la coesistenza delle due condizioni. Era prevedibile ma non è una buona notizia.

da Volere la Luna

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