“Una crociata contro il dissenso politico”. Eddi Marcucci si difende in appello
- novembre 15, 2020
- in misure repressive
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Udienza di appello per l’attivista che ha combattuto con le unità di protezione delle donne YPJ nel Nord-Est della Siria e che in questo momento subisce la repressione del Tribunale di Torino. Intanto, i suoi canali social sono stati oscurati
Oscurati i profili Facebook e Instagram di Maria Edgarda Marcucci, nota come Eddi: deve aver fatto troppo rumore la valanga di solidarietà ricevuta l’altro ieri (giovedì 12 novembre). Nel giorno dell’udienza di appello contro la sorveglianza speciale, misura applicata dal Tribunale di Torino lo scorso 17 marzo, sono arrivati sui canali social dell’attivista che ha combattuto con le Ypj in Rojava messaggi, disegni, foto e video di supporto. «Non è una novità che queste piattaforme si dimostrino ostili. Di certo non sono a servizio delle nostre cause, anche quando magari ci permettono di diffonderle», dichiara Marcucci a Dinamo Press. In ogni caso, «quello dei social media è un terreno che non va abbandonato, ma su cui è necessario dare battaglia. Per questo chiederemo che i profili siano ripristinati».
È combattiva come sempre, Eddi. La voce ferma e le idee chiare. D’altronde, i motivi addotti dall’accusa, rappresentata dal procuratore generale Avenati Bassi, non le erano sconosciuti.
Aver combattuto il terrorismo islamista insieme all’Unità di protezione delle donne (Ypj) nel Nord-Est della Siria non costituisce di per sé un problema, ma lo diventa se associato alla “mentalità da soldato” che lei avrebbe dimostrato qui in Italia nelle lotte del movimento No Tav, di Non una di meno e del Centro sociale Askatasuna . Questo, in breve, l’argomento dell’accusa.
Sullo sfondo, dunque, l’attivismo politico torinese, rispetto a cui forze di polizia e procura avrebbero adottato una linea precisa: «Perseguire in modo capillare e personale chi è più esposto. È sempre stato così – racconta Davide Grasso, ex combattente Ypg (Unità di protezione popolare curdo-siriane) – ma dal 2011 c’è stato un salto di qualità: all’interno delle manifestazioni si tentano di individuare e perseguire sempre le stesse persone. Non importa se non si hanno pietre in mano, si viene comunque fotografati e poi denunciati». Il risultato? Processi e misure cautelari per decine di persone. Tuttavia, «la repressione non ha sortito gli effetti sperati, perché le realtà politiche non si sono smobilitate – continua Grasso – quindi si è passati a misure preventive, come la sorveglianza speciale».
Torino, però, «non va presa come un caso eccezionale, ma come un caso limite» di ciò che accade sull’intero territorio nazionale – avverte Marcucci.
«Quella dello Stato è una giustizia delegata a un enclave di potere e privilegio, impegnata in una crociata repressiva verso ogni forma di dissenso politico». Lo confermerebbe quanto accaduto a seguito delle proteste delle scorse settimane contro le inasprite norme anti-Covid. Occasione in cui le istituzioni in causa «hanno dimostrato una scarsa capacità di dialogare con la realtà sociale del Paese, delegittimandone la rabbia e derubricandoli a tentativi eversivi». Lo confermerebbero anche le modifiche ai decreti sicurezza proposte un mese fa dalla ministra dell’Interno Luciana Lamorgese: in termini di repressione del dissenso, sempre secondo Marcucci, il testo «mantiene una continuità di scopo inequivocabile».
https://twitter.com/radiondadurto/status/1327273644993679361
Sconfitte dalle Forze democratiche siriane nel 2018, molte cellule jihadiste sono infatti rimaste dormienti per poi ritornare attive già il 9 ottobre 2019, data in cui l’esercito turco ha invaso i territori della Siria del Nord-Est.
Nell’immediato, la notizia ha fatto esplodere i festeggiamenti nei campi in cui erano in custodia le persone affiliate all’Isis e le loro famiglie. Di lì a poco, sui territori occupati da Erdoğan è stata imposta la Sharia. Trecentomila civili sono fuggiti, quelli rimasti devono fare i conti con parecchie asperità. La Turchia infatti «si è appropriata dell’impianto idrico di Alok, bloccando il rifornimento di acqua alle persone e ai campi circostanti», denunciano i racconti dei due attivisti. « Per migliaia di ettari si stanno perdendo le coltivazioni anche perché ai civili viene precluso l’accesso. Ad aggravare la situazione, l’autostrada M4 (arteria strategica che dal confine con l’Iraq passa per la città di Manbij e giunge a Idlib e Latakia, ndr), formalmente controllata dalla Russia, ma de facto nelle mani di Erdoğan. Raggiungere i centri abitati della regione è impossibile, anche per i rifornimenti di farmaci e altri beni di prima necessità. Immaginiamo con quali gravissime conseguenze, soprattutto mentre è in corso una pandemia» – sottolinea Marcucci. Il tutto condito dagli immancabili rapimenti, stupri, estorsioni e conversioni forzate.
L’Italia e l’Europa, oggi di nuovo all’erta sul fronte antiterrorismo, possono dirsi estranee a questo scenario? Per Marcucci, no. Le loro “responsabilità” sono molteplici. «Ha ragione Abdullah Öcalan (fondatore del Partito dei lavoratori curdo, condannato all’ergastolo nelle carceri turche dal 1999, ndr) ad affermare che in Medio Oriente è in corso una terza guerra mondiale, perché non c’è potenza che non abbia interesse a mettere le mani su una fetta della torta siriana». Nel corso della guerra civile scoppiata nel Paese nel 2011 «la Turchia ha svolto sempre un ruolo importante. È stata lei ad armare le bande jihadiste divenute egemoniche nell’Esercito libero siriano ed è stata sempre lei a utilizzare fondi europei, tuttora non tracciabili, per costruire un muro al confine con la Siria». Un confine impermeabile per chi fugge dalla guerra, ma poroso per le milizie di Daesh.
Oltre il muro, Erdoğan progetta una zona cuscinetto di circa 30 chilometri in cui trasferire mezzo milione di siriani attualmente rifugiati in Turchia, espellendo al contempo la comunità curda ivi residente.
«È un’operazione di sostituzione etnica, a cui però si sovrappone un aspetto politico – precisa Grasso – Non si tratta solo di persone che la Turchia si vuole togliere dai piedi. La polizia turca ha organizzato i siriani in campi profughi in base alla loro appartenenza politica. I miliziani e le loro famiglie sono state ospitate nel Kurdistan turco per creare tensioni; nei territori curdo-siriani occupati, invece, vengono trasferiti dei coloni. È una strategia simile a quella adottata da Israele in Palestina. Tutte le nazioni europee si dicono contrarie, ma di fatto nessuna è intervenuta, nemmeno in modo indiretto».
L’Italia, da un punto di vista formale, ha aderito alla Coalizione internazionale anti-Isis, ma poi ha inviato solo un piccolo contingente militare a proteggere un’azienda tricolore a Mosul (Iraq). Un coinvolgimento “timido”, dovuto al mancato accordo all’interno della Nato sul riconoscimento delle Forze democratiche siriane. Fuori dal linguaggio diplomatico, «non si voleva pestare piedi alla Turchia, dando una legittimazione politica all’Amministrazione autonoma della Siria del Nord-Est» – chiarisce Grasso. Fare altrimenti avrebbe voluto dire assumere «una posizione incompatibile con i piani espansionistici neo-ottomani. Impossibile per un Paese come il nostro che della Turchia è il quinto partner commerciale» – aggiunge Marcucci. Le armi di Leonardo Finmeccanica, le nocciole della Ferrero, i rapporti di forza nel Mediterraneo (soprattutto in area libica). Questi e tanti altri i fili che intrecciano Roma e Ankara.
Arianna Longo
da DINAMOPress
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