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Il corpo di Giulio Regeni chiede di non rimanere in silenzio

L’aveva detto subito la madre di Giulio Regeni: «Ho riconosciuto mio figlio solo dalla punta del naso». Oggi la conferma di quelle parole arriva attraverso le cronache dei risultati dell’autopsia. «Il corpo usato come una lavagna» perché i torturatori hanno inciso sulla sua pelle delle lettere, si è letto nei particolari crudi riportati dagli articoli. Carlo Bonini su Repubblica entra nei dettagli e racconta la serie infinita di ferite e percosse come risultano dal referto dei medici italiani: 221 pagine dell’orrore. I corpi restano a conservare le tracce di ciò che è accaduto. Urlano, nel loro silenzio, la verità. Alla faccia dei silenzi di Stato, degli accordi diplomatici. Non c’è depistaggio che tenga, Giulio non poteva essere morto per un incidente d’auto, come hanno tentato di far credere all’inizio le autorità egiziane agli italiani.

Per questo motivo è importante far sapere, divulgare quello che è successo. Il racconto crudo del corpo di Giulio serve, eccome. La cronaca esatta – senza svolazzi retorici e voyeuristici compiacimenti – ha il compito di alzare il velo su ciò che si vorrebbe coprire. Serve per sensibilizzare l’opinione pubblica, per far comprendere a tutti che lo Stato italiano non può rimanere con le mani in mano. Lo aveva fatto qualche giorno fa una bella puntata di Presadiretta di Iacona con una intervista toccante ai genitori e una inchiesta in Egitto. Lo fanno adesso i giornali raccontando il corpo devastato di Giulio Regeni.

Il racconto dell’autopsia fa venire in mente immagini e altre storie, tutte italiane. La cronaca stavolta riguarda giovani morti mentre si trovavano nelle mani delle forze dell’ordine, in stato di fermo. E anche in questo caso la decisione di “far vedere” il corpo è servita per impedire il silenzio. Lo aveva fatto Ilaria Cucchi quando, con forza e dignità, aveva mostrato pubblicamente davanti al Tribunale le immagini del corpo del fratello Stefano, ridotto a uno scheletro, con segni e tumefazioni ovunque. Quella gigantografia testimoniava senza ombra di dubbio una morte violenta. Lo avevano fatto anche il fratello di Riccardo Magherini e il suo avvocato Fabio Anselmo quando ad aprile 2014, con il senatore Luigi Manconi, mostrarono le foto del suo corpo dopo la morte in una conferenza a Palazzo Madama. Su quelle vicende sono ancora in corso i procedimenti giudiziari, mentre la legge che introduce il reato di tortura è ancora in stallo.

Oggi l’incontro tra gli investigatori italiani e quelli egiziani. Sono passati sette mesi dal ritrovamento del corpo di Giulio su un ciglio di un’autostrada egiziana. È passato molto tempo. Forse troppo. Per questo prosegue la mobilitazione di Amnesty per chiedere verità. A parte l’appello, continua la campagna che ha coinvolto enti locali, associazioni, sindacati e tanti singoli cittadini. Antigone, insieme ad Amnesty e all’associazione a Buon diritto ha lanciato una petizione «affinché – sostiene Patrizio Gonnella di Antigone – permanga il provvedimento di richiamo dell’ambasciatore italiano destinato al Cairo come primo elementare atto da cui non recedere e, piuttosto, da rafforzare con altre e più incisive misure (cosa finora non fatta), almeno fino a quando le istituzioni politiche e giudiziarie egiziane non dimostrino nei fatti la volontà di collaborare». Come dice Gonnella, «di fronte alla tortura e alla conseguente morte, ogni inerzia significa complicità». Soprattutto quando, come nel caso di Giulio, il suo corpo parla, al di là dei segreti di Stato.

Donatella Coccoli da Left

 

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