I nuovi «centri» sono luoghi di confinamento non sottratti alla giurisdizione italiana e internazionale. E dietro tante definizioni ci sono persone, non merce illegale da smaltire
di Fulvio Vassallo Paleologo
Dalla istituzione dei centri di permanenza temporanea ed assistenza (CPTA) introdotti nel 1998 dalla legge 40 (Turco-Napolitano), abbiamo assistito ad una continua modifica dei termini usati dal legislatore per definire quelli che erano, e rimangono ancora oggi, centri di detenzione amministrativa, strutture nelle quali gli stranieri privi di un titolo di soggiorno vengono trattenuti in attesa di un rimpatrio con accompagnamento forzato, dunque senza avere commesso reati, ma solo per la mancanza di un visto di ingresso o di un permesso di soggiorno.
Nei centri di detenzione possono essere trattenuti anche richiedenti asilo, mentre è espressamente vietato l’internamento di minori non accompagnati. Adesso il governo si prepara ad imporre con un nuovo decreto sicurezza il trattenimento amministrativo dei minori che siano ritenuti, ad un sommario accertamento di sedici anni. Una previsione che risulta in violazione di principi affermati nella legislazione italiana e nelle Convenzioni internazionali che garantiscono «il superiore interesse del minore».
Le convenzioni internazionali, come la Convenzione di Ginevra sui rifugiati del 1951, e le Direttive europee vietano il trattenimento amministrativo dei richiedenti asilo solo in virtù del loro ingresso irregolare e della presentazione di una istanza di protezione, ma a partire dal 2015, con l’avvio dei centri Hotspot e con il ricorso alle categorie di «migranti economici» e di «paesi di origine sicuri», i centri di detenzione sono diventati luoghi di negazione del diritto di asilo, e snodo centrale del sistema di contrasto dell’immigrazione «illegale», che riproduce clandestinità attraverso misure repressive adottate sotto la spinta dei sondaggi elettorali.
Le prassi di polizia si sono così orientate al prolungamento della detenzione amministrativa, poi sancito periodicamente dai decreti sicurezza dei governi di destra, anche quando era evidente che non si sarebbe mai effettuato un rimpatrio forzato. In questo caso la Direttiva rimpatri 2008/115/CE prevede la liberazione immediata. Il meccanismo delle convalide giurisdizionali si è andato svuotando nel tempo per il ricorso alle procedure in videoconferenza, con le difficoltà di accesso per le associazioni, con tempi sempre più brevi per partecipare alle udienze e depositare documenti. Fino alla introduzione delle procedure accelerate in frontiera (e del trattenimento amministrativo generalizzato) per i richiedenti asilo provenienti da paesi terzi sicuri. Norme approvate dal Parlamento in assenza di una copertura da parte delle corrispondenti normative dell’Unione Europea. Come rileva adesso la Commisione europea a proposito della garanzia finanziaria richiesta in alcuni casi per evitare la detenzione.
A tutti i richiedenti asilo vanno comunque garantiti diritti di informazione ed accesso alle procedure ordinarie, e quindi nel sistema di centri aperti di accoglienza (CAS, SAI, CPSA) per coloro che adducano a gravi motivi di carattere personale, pure se provengono da paesi di origine ritenuti sicuri.
L’ACNUR-ONU che pure riconosce le procedure accelerate in frontiera, in una Nota tecnica inviata al governo italiano durante l’iter di conversione del “Decreto Cutro”,«Raccomanda(va), tuttavia, di incanalare in procedura di frontiera (con trattenimento) solo le domande di protezione internazionale che, in una fase iniziale di raccolta delle informazioni e registrazione, appaiano manifestamente infondate. In particolare, la domanda proposta dal richiedente proveniente da un Paese di origine sicuro non deve essere incanalata in tale iter quando lo stesso abbia invocato gravi motivi per ritenere che, nelle sue specifiche circostanze, il Paese non sia sicuro. Si sottolinea, a tal fine, la centralità di una fase iniziale di screening, volta a far emergere elementi utili alla categorizzazione delle domande (triaging) e alla conseguente individuazione della procedura più appropriata per ciascun caso».
Al di là delle tante definizioni adottate nel tempo per nascondere la sostanza della detenzione amministrativa che si pratica in strutture nelle quali vengono sistematicamente negati i diritti fondamentali delle persone, la limitazione della libertà personale non può diventare uno strumento generalizzato per ridurre il numero delle persone che hanno diritto a fare ingresso in Italia per ragioni di protezione.
Si tratta di luoghi di confinamento che non possono sottrarsi alla giurisdizione italiana e internazionale, dove i diritti e le garanzie non possono essere riconosciuti solo sul piano formale per venire poi negati nelle prassi applicate dalle autorità di polizia. Dunque è il tempo delle denunce e dei ricorsi, e della mobilitazione, mentre l’opinione pubblica sembra ancora rimanere ostaggio delle politiche della paura e dell’odio. Risulta fondamentale garantire l’informazione e l’assistenza legale, l’accesso civico agli atti e la possibilità di ingresso di giornalisti ed operatori umanitari indipendenti, se occorre con gruppi di parlamentari, in tutti i centri in cui si pratica la detenzione amministrativa. Dietro tante definizioni diverse ci sono persone che non possono essere trattate come merce illegale da smaltire.
da il manifesto
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