Il Belgio detiene il ben poco invidiabile primato di volontari partiti per la Siria: oltre 450 secondo le ultime cifre fornite dal locale ministero dell’Interno
La stazione della metropolitana di Maelbeek non dista più di dieci minuti a piedi dal grande Parc du Cinquantenaire, vasto polmone verde che domina il cuore della capitale belga. Per cercare di capire perché il Belgio, ed in particolare Bruxelles, siano stati colpiti e perché proprio questo piccolo e in apparenza inoffensivo paese detenga il ben poco invidiabile primato dei foreign fighter partiti alla volta della Siria, oltre 450 secondo le ultime cifre fornite dal locale ministero dell’Interno, si può partire proprio dal parco che re Leopoldo II volle far costruire alla fine dell’Ottocento per celebrare il primo mezzo secolo di indipendenza del paese.
In una metropoli che ha subito nell’arco degli ultimi tre decenni una delle più vaste e articolate ristrutturazioni urbanistiche e sociali della sua storia, i luoghi e i simboli non passano infatti inosservati. Se l’epicentro dello jihadismo locale è considerato il quartiere di Molenbeck, periferia occidentale della città, dove dei 100mila abitanti almeno un quarto è di origine marocchina e dove gli agenti che nei giorni scorsi hanno catturato Salah Abdeslam sono stati accolti da una sassaiola e dalle grida rabbiose di giovani incappucciati, non si può infatti dimenticare che solo a ridosso dei boulevard del centro comincia la zona di Saint-Josse, dove la comunità più consistente è quella turca o che gli stessi Marolles, vecchio quartiere operaio che ha ispirato i personaggi di Hergé e più recentemente le canzoni di Arno, ha invece un profilo decisamente maghrebino.
La «città degli immigrati» è così separata in modo rigido da quella dei nuovi ceti globali attratti dal lavoro presso le istituzioni internazionali, ma allo stesso tempo, proprio per far posto al cosiddetto nuovo quartiere europeo dove sorgono i palazzi futuristici della Ue, fu letteralmente raso al suolo il quartiere Leopold che si estendeva attorno all’omonima stazione ferroviaria e dove abitavano più di 30mila persone, spinte via via sempre più lontano dal centro. Speculazione edilizia, riassetto urbano, ghettizzazione etnica, nuovi, invisibili confini che si sono stesi nella metropoli definendo le forme attuali dell’esclusione ma che sono stati accompagnati anche da progetti politici e culturali più precisi e specifici.
Nel 1967, in occasione di una visita ufficiale del sovrano dell’Arabia saudita, Faisal, l’allora monarca belga, Baldovino, al fine di suggellare un’importante accordo economico tra i due paesi, concesse infatti un edificio del parco del Cinquantenario alle istituzioni della petromonarchia. Nel 1978 sarebbe stata inaugurata così la Grande moschea della città ed un annesso centro culturale islamico che avevano lo scopo di far conoscere le tradizioni dell’Islam alla popolazione degli immigrati cresciuta significativamente nel paese specie intorno all’industria mineraria. La particolare visione della cultura islamica diffusa dai sauditi, in questo come in molti altri centri ufficiali in tutta Europa, è però quella del wahabismo che nella sua prospettiva più radicale ha ispirato al Qaeda, mentre nella sua pratica quotidiana stabilisce una rigida divisione negli spazi sociali tra uomini e donne e un rifiuto degli stili di vita occidentali.
Con il risultato che a Bruxelles, da oltre trent’anni, la particolare interpretazione del pensiero islamico che attraverso la rete assistenziale e caritatevole sostenuta dalle autorità di Ryad è arrivata nei quartieri popolari della città, a cominciare da Molenbeck, ha più o meno esplicitamente promosso, piuttosto che l’integrazione al resto della società, una netta separazione. Come evidenziato anche da un’inchiesta di Libération, proprio a partire dall’impegno profuso dai sauditi presso le comunità immigrate, in un contesto sociale e economico che si è fatto via via più complesso, a Bruxelles «hanno cominciato a svilupparsi un gran numero di organizzazioni estremiste».
Dopo che negli anni Novanta il Belgio è apparso a più riprese come la retrovia organizzativa dei gruppi salafiti algerini, a cominciare dal Gia, il Groupe islamique armé, affini alla dottrina wahhabita, l’episodio che avrebbe proiettato il paese al centro della jihad mondiale arriverà però alla vigilia degli attacchi contro New York dell’11 settembre del 2001, quando il comandante Massoud, leader dell’Alleanza del nord e principale avversario dei talebani in Afghanistan, sarà ucciso da due uomini che si fingevano giornalisti.
Si trattava di due tunisini residenti a Bruxelles. Per oltre 15 anni, passando dal cosiddetto Centre islamique belge, basato a Molenbeek, a figure come quella di Jean-Louis Denis, un belga convertito all’Islam, autoproclamatosi guida spirituale e spesso intervistato dai media locali, condannato a gennaio di quest’anno per aver organizzato il reclutamento di aspiranti foreign fighters, fino all’organizzazione Sharia4Belgium, illegale da un paio d’anni e sospettata di forrnire oltre il 10% dei combattenti belgi in Siria, Bruxelles è stata il centro di quello che si può considerare come un movimento diffuso con centinaia di aderenti e forse un numero ancora superiore di sostenitori.
I ritratti dei giovani protagonisti di questo fenomeno, dagli adepti di ben Laden di oltre una decida di anni fa fino agli odierni sostenitori dell’Isis, tendono però a cambiare con il passare del tempo. Salah Abdeslam come Abdelhamid Abbaoud, tra i responsabili delle stragi di Parigi, come gli autori degli attentati di Bruxelles sono spesso ex delinquenti comuni riconvertiti al fondamentalismo e la cui preparazione ideologica o religiosa appare superficiale. Secondo Rik Coolsaet, ricercatore dell’Università di Gand, «questi giovani hanno sviluppato una sorta di sottocultura islamista frutto del fatto che si percepiscono in una situazione senza sbocco e del fascino che la violenza ha su di loro come una sorta di dimensione avventurosa». Vale a dire ciò che gli esperti dell’antiterrorismo definiscono sempre più spesso come «jihadist cool» che si muovono in un contesto sociale e simbolico che trasforma la loro «pop-jihad come uno stile di vita».
Guido Caldiron da il manifesto