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Barbara Balzerani ricorda Riccardo Dura “giustiziato” a Genova: la Digos indaga

La storia la scrivono i vincitori. Gli sconfitti si adeguano, ma da qualche parte dovrebbero conservare il diritto a dire la loro senza essere costretti a risponderne in tribunale.

Il problema non certo nuovo si ripropone in questi giorni con la notizia che la Digos di Genova sta svolgendo accertamenti, secondo quanto scritto dal sito Genova Quotidiana e rilanciato dal Corriere della Sera, su un post Facebook dell’ex dirigente delle Brigate Rosse Barbara Balzerani, relativo alla morte di quattro militanti dell’organizzazione uccisi in via Fracchia il 28 marzo del 1980 dai carabinieri del generale Dalla Chiesa. “Fiori freschi memoria viva”, le parole del post accanto alla foto della tomba di Riccardo Dura, uno dei quattro Br uccisi.

Va detto che la ricostruzione ufficiale era sta messa in dubbio anche due anni fa quando, sulla base di un esposto di un ricercatore universitario in cui si sosteneva la tesi di Dura finito con un colpo alla nuca, la procura di Genova aprì un’indagine per omicidio volontario. Ma alla richiesta di carte da parte della procura emergeva che l’intero fascicolo su via Fracchia era scomparso. Per cui il capo dei Pm avviava un’inchiesta per furto delle carte processuali. Insomma si tratta di una vicenda tuttora controversa a oltre quarant’anni dai fatti ma non è questo il punto. La discussione vera riguarda altro in linea più generale. Il diritto, definiamolo così, dei vincitori di scrivere la storia può e deve arrivare fino al punto di imporre la versione ufficiale e la ricostruzione storico-politica manu militari? Esiste o meno il diritto al dissenso che dovrebbe essere il sale di una democrazia?

E qui entra in gioco la questione della memoria condivisa. I vincitori per memoria condivisa intendono il trionfo in eterno della loro verità senza contraddittorio. Siamo in un Paese in cui a 75 anni dal 25 aprile non si può dire vi sia una memoria condivisa sul fascismo la sua storia e la sua fine. Appare ancora più assurdo pretenderlo per fatti molto più vicini a noi e sui quali non c’è mai stato un dibattito politico serio in merito alle origini e alle cause di un fenomeno che portò nelle patrie galere migliaia e migliaia di persone. Il tutto è stato affidato agli atti giudiziari e alle commissioni parlamentari di inchiesta dove in verità si sono viste le cose peggiori con il dilagare della dietrologia che sul caso Moro ha finito per sfociare nel delirio puro.

Con ogni probabilità la fotografia dell’impossibilità di una memoria condivisa sta nell’aiuola di fronte alla Banca Nazionale dell’Agricoltura dove ci sono due lapidi a ricordare l’anarchico Giuseppe Pinelli. Una, quella istituzionale, dice “morto” in questura; l’altra, di “studenti e operai milanesi”, dice “ucciso”. Non esiste possibilità di mediazione. Tornando a noi, con ogni probabilità gli accertamenti della Digos genovese non porteranno a iscrizione nel registro degli indagati delle 300 persone che hanno messo il like o condiviso il post di Barbara Balzerani. Il reato di like sarebbe eccessivo persino nella Repubblica penale che da decenni caratterizza il nostro Paese.

E sarebbe sorprendente se si scoprisse che una procura impegnata in indagini importanti come quella del crollo del ponte Morandi e quella sui milioni della Lega Nord avesse tempo da perdere. Come del resto ben difficilmente l’inchiesta sulla scomparsa del fascicolo sui fatti di via Fracchia sembra destinata a ottenere risultati. Evidentemente chi l’ha fatta sparire sapeva che lo Stato ha qualcosa da nascondere e da “fedele servitore” ha fatto il suo mestiere.

Frank Cimini

da il Riformista

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