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Archiviare la morte di Mario Paciolla come suicidio è una vergogna

Per la procura di Roma l’ipotesi più accreditata riguardo la morte di Mario Paciolla è quella del suicidio. Archiviare il caso significa far vincere le bugie del potere

di Gloria Ferrari

Era il 15 luglio del 2020 quando a San Vicente del Caguan, una cittadina colombiana, Mario Paciolla venne trovato senza vita in casa sua, appeso a un lenzuolo. Il giornalista napoletano, cooperante in Sudamerica per conto dell’ONU, si trovava in Colombia dal 2018 per seguire un progetto di pace che avrebbe dovuto portare ad un accordo interno tra il governo locale ed ex ribelli delle FARC (Forze Armate Rivoluzionarie della Colombia). Le dinamiche della morte di Mario non sono ancora chiare e potrebbero rimanere irrisolte per sempre: a distanza di più di due anni dalla sua scomparsa, infatti, il 19 ottobre la procura di Roma ha chiesto l’archiviazione dell’inchiesta, credendo alla versione dei fatti che dice che Mario si sia volontariamente tolto la vita. La famiglia di Paciolla non ha mai creduto all’ipotesi del suicidio, soprattutto per via di alcune strane situazioni che si erano venute a creare prima della morte del figlio. «Mario era un amante della vita, ma la cosa più importante è che aveva un biglietto in tasca di ritorno in Italia per il giorno 20 luglio». Secondo Giuseppe Paciolla, padre del cooperante, Mario voleva tornare a casa, e con una certa fretta. Per capire il senso delle sue parole e di quel biglietto aereo, ripercorriamo le tappe della vicenda, fin dall’inizio.

Il ritrovamento del corpo e il depistaggio dell’ONU

È la mattina del 15 luglio 2020, Mario in ufficio ancora non si vede. Una sua collega, preoccupata, va a cercarlo a casa, nella sua abitazione a San Vicente del Caguán. Lì lo trova impiccato, il collo avvolto con un lenzuolo. Nella stanza però ci sono anche delle tracce di sangue, che non tutti riusciranno a vedere. I poliziotti colombiani (poi indagati per ostacolo alla giustizia), arrivati nell’appartamento dopo l’allarme, permettono ad alcuni membri della stessa missione ONU di entrare in casa, raccogliere gli effetti personali di Mario e ripulire la scena. Tra loro c’è anche Christian Thompson, l’incaricato alla sicurezza della missione ONU, con cui Paciolla si era scritto fino alle 10 – ora locale – della sera prima (il certificato di morte dice che Mario ha smesso di respirare alle 2 di notte).

Nonostante gli venga detto di non toccare nulla, Thompson porta con sé computer e cellulari, perché dice di proprietà dell’ONU e altri oggetti, che lui stesso racconterà di aver smaltito in discarica. Secondo Claudia Julieta Duque, giornalista investigativa e amica di Paciolla, che sta “privatamente” indagando sulla morte del cooperante, il mouse del pc «appare nell’inventario inviato alla famiglia della vittima che però finora non ha ricevuto assolutamente nulla. Ma una prova tecnica realizzata da alcuni funzionari della procura ha indicato che il mouse era impregnato di sangue, ma nonostante questo fu pulito e prelevato dall’ONU». Non solo. Dopo la morte di Mario la Missione Onu trasloca tutto il suo “staff” da San Vicente (dove abitava anche Paciolla) verso Florencia, il capoluogo del dipartimento di Caquetá, con l’ordine per tutti di non rilasciare alcuna intervista e non parlare con i media.

Due giorni dopo l’accaduto, il funzionario torna ancora una volta a casa di Mario, ma non è da solo: con lui ci sono due persone che, munite di candeggina, puliscono tutta l’abitazione e riconsegnano le chiavi al proprietario. Quando, il giorno successivo, la polizia arriva per un sopralluogo, a casa di Mario non c’è più niente. A questo punto ricostruire la vicenda diventa praticamente impossibile.

Appello sulla pagina Facebook "Giustizia per Mario Paciolla"

Appello sulla pagina Facebook “Giustizia per Mario Paciolla”

Per le autorità locali, che Mario si sia tolto la vita non ci sono dubbi. A loro parere le ferite di arma da taglio ritrovate sul cadavere se l’è auto inferte la stessa vittima. A questa versione dei fatti, come abbiamo detto, chi conosceva Mario non ha creduto nemmeno per un secondo. Anche in Italia la salma di Mario ha subito l’ennesima autopsia. Il gruppo di medicina legale che si è occupato di ripetere gli esami – lo stesso di Stefano Cucchi e Giulio Regeni – e di farne alcuni nuovi (che anche in Colombia avrebbero dovuto eseguire), ha prima di tutto rilevato che la ferita sul collo di Mario non è compatibile con l’impiccagione – e non è stata decisiva per il decesso. Probabilmente, quindi, Paciolla è stato prima torturato e strangolato, e poi appeso al lenzuolo per sviare le indagini. Ma anche in questo caso, nonostante i nuovi elementi, ad oggi non c’è ancora nulla di concreto. Anzi, come abbiamo detto, la Procura vorrebbe chiudere qui il caso.

«Nessuno ci ridarà nostro figlio, ma il percorso verso la verità che abbiamo intrapreso lo porteremo a termine in nome di quella ‘meglio gioventù’ italiana che parte veramente con l’intenzione di migliorare la vita del prossimo e porta in alto il nome dell’Italia nel mondo». Era questo che Mario era andato a fare così lontano da casa sua: portare la pace, nel senso più democratico possibile del termine, senza le armi, come invece accade in molte altre parti del mondo. Per questo si definiva un attivista, «un cittadino del Mondo e con un cuore enorme, sempre disponibile per gli altri ed impegnato nella quotidiana missione di aiutare chi ha avuto meno fortuna nella vita», come lo descrivono gli amici. Un giovane 33enne laureato in Scienze politiche fortemente certo che tutti i cittadini dovessero godere delle stesse possibilità e degli stessi diritti, tra cui quello alla vita. Difficile auspicare una realtà come questa anche per la Colombia, un Paese ormai da decenni devastato da faide interne, corruzione statale e narcotraffico che hanno causato mezzo milione di vittime. Anche se gli accordi di pace tra il governo di Bogotà e le Farc esistevano già dal 2016 (e compito dell’ONU era verificare che ci fossero per davvero), cancellare una guerra civile lunga mezzo secolo risulta complicato. Difficile sì, ma non impossibile per Paciolla, che insieme ad alcuni suoi colleghi si era impegnato in un ambizioso progetto che avrebbe dovuto sostenere il reinserimento di ex guerriglieri all’interno della società. Ma «l’ONU, proprio l’organismo che si occupa di garantire i diritti umani nel mondo, non è riuscito a garantire il diritto alla vita di mio figlio, derubricando la sua morte come un suicidio pochissime ore dopo il ritrovamento del suo corpo e senza neanche garantire l’autopsia».

Mario aveva paura: sapeva cose che non doveva sapere

Proprio nei giorni che avrebbero dovuto precedere il suo ritorno a casa, vivo, Mario aveva espresso ai suoi genitori paura e preoccupazione per la sua incolumità. «Sappiamo che la verità su nostro figlio è nascosta negli ultimi cinque giorni della sua vita», gli stessi in cui Mario si sentiva inquieto, minacciato. La gente attorno a lui si comportava in maniera insolita, lo rendeva teso: per questo aveva deciso di darci un taglio, tornare in Italia e scordarsi dell’ONU e della Colombia. «Altro che suicidio, mio figlio era terrorizzato: negli ultimi sei giorni non faceva che mostrare la sua preoccupazione e inquietudine per qualcosa che aveva visto, capito, intuito» ha raccontato la madre, Anna Motta. Mario le aveva detto di essersi messo in un pasticcio, di aver litigato con i capi.

Teoria sostenuta dalle prove che la giornalista Claudia Julieta Duque continua a raccogliere e pubblicare sul quotidiano El Espectador – e per cui è stata costretta più volte a lasciare la Colombia.

Secondo la sua ricostruzione, la morte di Mario sarebbe collegata ad una fuga di notizie, un rapporto ONU che sarebbe dovuto rimanere segreto e che invece, trapelato, ha portato alle dimissioni dell’allora ministro della Difesa colombiano Guillermo Botero. Spieghiamo meglio: qualche mese prima della morte del cooperante (per la precisione il 7 novembre del 2019) Botero si è dopo la diffusione, avvenuta per mano di Roy Barreras, senatore dell’opposizione, di una documentazione ONU segreta su un attacco sferrato dall’esercito colombiano ai danni di alcuni dissidenti della Farc. Nei documenti, alla cui stesura aveva lavorato anche Paciolla e il cui nome appariva chiaro sulla carta, si elencavano dettagliatamente violenze compiute nei confronti non solo dei dissidenti, ma anche delle loro famiglie. Negli attacchi erano morti anche diversi minori di età compresa fra i 12 e i 17 anni.

Il fatto che questi rapporti fossero stati resi noti – non si sa ancora chi li abbia inviati a Barreras e perché – aveva messo in allerta Paciolla: la paura più grande era quella di una ritorsione da parte delle forze militari. Qualche settimana dopo, mentre era in vacanza nella sua Napoli, Paciolla, come ha scritto Duque, aveva chiesto di cancellare quante più tracce possibili di lui dal web. Aveva eliminato tweet, foto, cambiato password e reso privato il profilo Facebook. Aveva inoltre chiesto al padre di separare la connessione internet, fino a quel momento condivisa tra il suo appartamento e la casa di famiglia, e ad un amico di eseguire il backup delle informazioni contenute sul suo pc personale, ha scritto Claudia Julieta Duque. Gli stessi colleghi del cooperante avevano già subito attacchi informatici. È in questo contesto, scrive Duque, che Paciolla iniziò a confidare ad amici e conoscenti di essere molto preoccupato e di voler tornare in Italia.

Da lì in poi il buio. Difficile, d’altronde, reperire informazioni se, a quanto sembra, è in primis l’ONU a non volere che queste vengano fuori. Alessandra Ballerini ed Emanuela Motta, le legali che seguono il caso, hanno più volte dichiarato che l’omertà dei colleghi di Mario ha reso le indagini molto più lunghe e ingarbugliate del previsto. Per questo motivo i genitori di Paciolla hanno depositato una denuncia formale nei confronti di due funzionari dell’Onu e quattro agenti della polizia colombiana.

Appello pagina Giustizia per Mario Paciolla

Appello sulla pagina Facebook “Giustizia per Mario Paciolla”

Una vicenda che grida verità e giustizia

Le speranze della famiglia, al momento tradite anche dall’Italia, sono riposte nel governo progressista e di sinistra di Gustavo Petro, che potrebbe mostrarsi più collaborativo e interessato a far conoscere la verità. Al momento non sappiamo se le volontà della Procura di Roma diventeranno reali a tutti gli effetti e se Mario, così come Giulio Regeni, finirà per essere vittima due volte: di chi l’ha ucciso e di chi l’ha dimenticato.

Riportiamo alcuni estratti della lettera, tradotta dal Manifesto, che Claudia Julieta Duque, l’unica che insieme alla famiglia di Paciolla si sta battendo per scoprire la verità sulla morte dell’amico, gli ha scritto dopo la sua morte: «So dei tuoi malumori interni nei confronti di un’organizzazione che nel 2019 nel suo rapporto ha dedicato soltanto un paragrafo di sei righe al bombardamento militare nel quale sono morti 18 bambini e bambine reclutati dalla dissidenza delle Farc, dove si è infierito su alcuni corpi già morti. So che hai documentato altri casi del genere. So che ti dava fastidio la leggerezza dei toni dei rapporti dell’Onu, la complessa relazione di alcuni membri della missione con l’esercito e la polizia, la contrattazione di civili che avevano lavorato per le forze militari, la passività di questa organizzazione di fronte ai bombardamenti contro i civili. […] Qualche settimana fa avevi sbloccato il lucchetto che assicurava la recinzione del tetto che dava sulla terrazza del piccolo edificio dove vivevi, in ottica preventiva, nel caso “che qualcuno” venisse a cercarti. […] Mi fai male al cuore, Mario Paciolla. Da brigatista mi hai salvato la vita. Oggi c’è solo un modo per saldare questo debito: cercare la verità sulla tua morte».

da L’Indipendente

 

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