Antirazzismo, istruzioni per l’uso
- ottobre 27, 2014
- in antifascismo, crisi, diritti civili, migranti cie, razzismo, riflessioni, rom, sicurezza
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Ascoltando i talk show, seguendo la rete ed alcuni eventi che hanno portato numerose persone nelle piazze italiane, è facile notare come ricomincino a circolare messaggi di carattere xenofobo e platealmente razzista che rischiano di divenire verità inconfutabili nella pubblica opinione. Quanto segue è il tentativo di segnalare alcune bugie plateali che andrebbero smentite laddove se ne sente parlare, nei luoghi di socializzazione, negli ambienti in cui sovente qualcuno, più o meno in buona fede, veicola quello che è un vero e proprio virus.
E partiamo proprio dal virus, o meglio dall’idea che chi arriva in questo periodo, soprattutto sulle coste italiane, in fuga dalla guerra, sia portatori di malattie letali e di pandemie vere e proprie come l’ebola ma anche di più diffuse patologie trasmissibili. Smentendo i Grilli di turno va detto che ogni persona che arriva è da sempre sottoposta ad attenta visita medica. Ad affermarlo è l’Organizzazione Mondiale per la Sanità a praticarlo sono organizzazioni umanitarie internazionali come Croce Rossa, Medici Senza Frontiere ed altre presenti nei luoghi di sbarco col proprio personale. Scarsi finora i rilevamenti di malattie veicolabili come la Tbc, più facili le infezioni cutanee, facilmente curabili e che difficilmente si trasmettono fuori dai centri di accoglienza. Inesistente la minaccia ebola. Finora le uniche persone giunte nel mondo occidentale che hanno contratto tale morbo erano operatori sanitari giunti per via aerea e per essere curati. Chi ha contratto tale virus, rapidissimo nei tempi di incubazione, non ha neanche il tempo e l’energia per mettersi in viaggio in percorsi che durano mesi e mesi. Si aggiunga che nei 3 Paesi dell’Africa Occidentale in cui si sta sviluppando l’epidemia le frontiere sono chiuse e non è possibile salire su un aeroplano, anche se in possesso del visto, se prima non si sono effettuati esami che dimostrino l’assenza di patologie. Anche in assenza di malattia conclamata, una semplice alterazione della temperatura porta a impedire la partenza. Quindi meno paure da diffondere e più investimenti per curare laddove pur non esistendo un vaccino certamente efficace è possibile guarire se si interviene tempestivamente. Msf che opera in questi paesi è riuscita, con il proprio intervento a far crollare la percentuale dei decessi dall’80% al 50% e si conta di poter migliorare ancora i risultati.
Una fandonia colossale è quella secondo cui ai “clandestini” verrebbero erogati dai 900 ai 1200 euro al mese, sottratti al bilancio dello Stato, per non fare nulla in un eterno assistenzialismo. Qui si tratta di una sommatoria di bugie: a) nei centri di accoglienza non vanno “clandestini” ma richiedenti asilo che attendono l’esito di una risposta da parte delle commissioni preposte. L’80% e più delle persone che sbarcano arrivano da Paesi in cui si sta combattendo quella che anche il Vaticano ha definito Terza Guerra Mondiale, dalla Siria all’Eritrea, dall’Iraq alla Somalia. Vada Salvini ad aiutare “a casa loro” queste popolazioni in fuga ma si consiglia l’elmetto. b) i 35 euro di costo cadauno giornaliero per ogni persona accolta vengono erogati agli enti gestori di ogni singolo centro che debbono provvedere al nutrimento, all’accoglienza, all’assistenza sanitaria e legale, agli interventi di mediazione culturale. Alle persone accolte nei centri arrivano, non sempre 2,50 euro al giorno, per le spese di necessità. In molti centri questo cosiddetto pocket money è distribuito in modo da poterne usufruire solo all’interno dei centri stessi. Che ci sia un vasto sistema di speculazioni in questa modalità di gestione emergenziale di un fenomeno oramai strutturale, è cosa certa. Che ne beneficino i profughi, spesso costretti in condizioni inaccettabili per qualsiasi essere umano è totalmente menzognero, tanto è che non appena possibile, chi è così caldamente accudito in simili strutture, spesso provvisorie, sovente in disfacimento, con personale non formato per tali compiti, fugge di gran lena verso gli altri Paesi europei. c) gran parte dei fondi impegnati per tale accoglienza provengono dalla tanto vituperata Comunità Europea. E lì c’è un altro dato interessante: l’Italia risulta essere il primo Paese per somme elargite dalla Comunità (470 milioni nel 2013) e l’ottavo per il numero di persone accolte effettivamente. Qualcosa non funziona tanto che sono giunte puntualmente minacce per ridurre le risorse che giungono all’Italia evidentemente mal utilizzate. d) A chi poi afferma che le operazioni di soccorso in mare sono servite ad aumentare il numero di profughi in Italia andrebbe fatto presente che tali misure, come Mare Nostrum, peraltro insufficienti rispetto all’urgenza di alcune popolazioni, hanno esclusivamente diminuito il numero dei morti in mare. Chi fugge da alcuni contesti, in una fase come quella che è in atto, non parte perché certo di arrivare ma solo perché coltiva la remota speranza di farcela, con ogni mezzo.
Altra grande e fantastica trovata è la moltiplicazione dei “clandestini”, la sindrome da invasione tanto propugnata agitando, senza neanche aver letto i dati, alcune pubblicazioni ministeriali. Le persone “irregolarmente presenti” sono cresciute dell’800% come si afferma in nome del fatto che “oramai non c’è controllo”. Sarebbe facile fermarsi al fatto che la legge ancora in vigore in materia è nota come Bossi-Fini, non proprio fautori della libera circolazione ma la realtà è ancora totalmente rimossa. Intanto specifichiamo che, dei circa 135 mila profughi giunti in Italia, solo il 30% è rimasto nel Bel Paese, che evidentemente così gradevole non risulta. Gran parte dei cosiddetti “clandestini” presenti in massa sono o le persone che hanno chiesto asilo ma che attendono ancora i tempi dell’esame della loro domanda, quelli che non vogliono fare simile richiesta in questo Paese avaro, o le persone che, avendo perso il lavoro, stanno perdendo anche il diritto a restare in Italia. Per i primi si tratta di intervenire con urgenza. Il governo recentemente ha raddoppiato il numero delle commissioni territoriali incaricate ma il lavoro arretrato resta molto. Si può ancora restare sbattuti da un centro all’altro per oltre un anno senza conoscere se e a quale tipo di protezione si ha diritto. Per i secondi il problema si chiama “Regolamento Dublino”, un trattato che funziona a mo di gabbia e che non permette ai profughi di scegliere il Paese in cui chiedere asilo ma li obbliga a fermarsi nel primo dell’Area Schengen in cui si è approdati. Chi batte i pugni sul tavolo quando va in tv evidentemente non è in grado di far valere le proprie ragioni in sede europea superando gli egoismi nazionali, le 130 mila persone sbarcate fino ad oggi, in un continente abitato da 500 milioni di persone, non costituiscono un ostacolo all’inclusione. Non lo sarebbero neanche in Italia se la questione degli arrivi dal Mediterraneo non continuasse ad essere affrontata come emergenza imprevista ma come frutto di mutamenti geopolitici di cui il governo è corresponsabile e su cui ci sono stati i tempi per attrezzarsi. Da ultimo la crisi occupazionale investe anche i cittadini migranti stabilmente presenti in Italia da anni. Con il particolare problema che, se per un anno non si trova un contratto regolare si perde il diritto a permanere in questo Paese. In tanti stanno già facendo da tempo le valigie, come fanno gli autoctoni, non solo i giovani, molti tornano anche con maggiori speranze nel proprio paese di origine o utilizzano le competenze acquisite in Italia in altri contesti. Il problema è che le leggi vigenti “producono stranieri”. Si arriva in Italia, lo Stato spesso spende anche in formazione anche professionale ma poi non riconosce eguali diritti, al massimo una carta di soggiorno dopo 5 anni di permanenza regolare e senza aver mai perso lavoro, irraggiungibile la cittadinanza (che forse con l’intervento del governo potrà sanare una parte dei nati in Italia e residenti) mentre invece è tollerato se non incoraggiato il lavoro nero che non offre alcuna garanzia per chi lavora. La crisi è anche questo, accentuarsi di povertà che inevitabilmente portano molte persone in circuiti di marginalità.
Poi c’è il refrain secondo cui “gli immigrati sono troppi, costano e non ce li possiamo più permettere”. Secondo i dati Istat, il rapporto fra spesa e introiti, derivanti da tasse, consumi e mobilità economica, fa sì che in periodo di crisi la presenza migrante abbia garantito, per il 2013, un “saldo positivo” sulla bilancia dei pagamenti di circa 1 mld e 500 milioni di euro. Una cifra senza la quale il crollo del Pil nostrano assumerebbe caratteristiche ancor più catastrofiche. L’invecchiamento della popolazione italiana fa inoltre si che una parte consistente dei trattamenti pensionistici erogati a cittadini autoctoni, grillini o padani che siano, sussistono anche grazie alla presenza di lavoratori e lavoratrici migranti che difficilmente riusciranno ad andare in pensione recuperando i contributi versati. Con molti Paesi non esiste infatti accordo di reversibilità o di esportabilità della pensione né di cumulo con quella che si maturerebbe nel proprio paese di origine. Insomma trattasi di contributi regalati agli italiani, quelli che, secondo l’autorevole nostro ministro dell’Interno, debbono sempre venire prima. Laddove l’accordo fra paesi esiste vale la riforma Fornero, quella che allieta anche le nostre pregiate vite, quindi è ben lontano il tempo in cui potranno usufruirne. C’è poi concorrenzialità sul piano occupazionale con i lavoratori e le lavoratrici stranieri? Si certamente, anche se bisognerebbe adeguare, anche qui, la definizione. C’è un mercato del lavoro al ribasso di cui sono responsabili tutte le innumerevoli riforme a cui questo è stato sottoposto negli anni, al precariato galoppante (altro che flessibilità) alle mille forme di deroga al contratto nazionale. Ma, se invece di colpire chi è costretto a lavorare con minori tutele e salari più bassi, pena il rischio di divenire irregolari (clandestini) si andasse a colpire chi lucra illegalmente su tale condizione, forse le cose cambierebbero. Così come cambierebbero, in meglio e anche per gli autoctoni, le modalità di vita e di lavoro di chi è costretto nel sommerso. Ma, nonostante leggi formulate e mai applicate integralmente, chi è al nero si deve ancora nascondere. In caso di controlli da parte degli insufficienti ispettorati del lavoro, a rischiare è il lavoratore o la lavoratrice. Il padrone (è improprio parlare di datore di lavoro) è colpito solo in caso di “grave sfruttamento” o “riduzione in schiavitù”, quanto è grave lo sfruttamento e quanto è reale la schiavitù lo stabilirà un giorno un giudice, nel frattempo espulsioni per chi è stato sfruttato e non è in regola, nessun problema per chi commette simili odiosi reati.
orna in questi giorni il mai rimosso “allarme sicurezza”. Anche qui, senza far finta di non vedere le criticità che ci sono soprattutto in alcuni quartieri popolari dove l’assenza di prospettiva favorisce anche circuiti criminali, autoctoni e stranieri, guai a provare a verificare dimensioni e cause della questione. Se mediaticamente trovano sempre più spazio i reati commessi presumibilmente da cittadini stranieri è altrettanto vero che è necessario che tali situazioni vengano affrontate per quelle che sono, questioni sociali in cui, accanto al reato da perseguire (il reato è commesso da una persona non da una comunità) si tratta di garantire ai territori maggior intervento delle amministrazioni, servizi, risorse di cui debbono essere beneficiari autoctoni e non. Se alcune sacche di microcriminalità crescono all’interno delle comunità straniere va svolto un intervento che non può tradursi nella caccia indiscriminata allo straniero. Diritti e servizi sarebbero un investimento che invece le politiche liberiste sottraggono alle fasce più vulnerabili, indipendentemente dalla nazionalità. La disperazione nella crisi è in alcune zone del Paese dilagante, si prenda atto di come spesso si traduca in depressione senza ritorno, a volte in tragedie che trovano spazio in ambito familiare, altre in circuiti di devianza. Non è buonismo, parola quanto mai abusata ma prendere atto dell’interezza di un contesto e non solo di un suo punto apicale di problematicità. Si scrive a lungo e giustamente di reati maturati nel degrado, commessi soprattutto da giovani maschi a volte stranieri, si rimuovono velocemente quei delitti in cui è “lo straniero” a essere vittima. Evidentemente restano vite di serie B.
In subordine ma con costante incremento, vanno crescendo islamofobia e paura generata dagli eventi connessi al terrorismo di matrice fondamentalista. A parte il “futile” particolare che la maggior parte delle persone che giungono in Italia professa la religione cattolica bisogna fare un altro salto di riflessione. Andrebbe quantomeno specificato che chi fugge dai Paesi in cui si vagheggia il califfato è di solito preso fra gli attacchi integralisti, quelli dei regimi finora imperanti e i bombardamenti umanitari occidentali. Altro che terroristi infiltrati. Più complesso è il tema di coloro che, nati e cresciuti in Occidente si sentono chiamati ad una Guerra Santa. Finora hanno agito recandosi a combattere nei Paesi di origine o in quelli in cui è più forte il conflitto. Per impedire che avvengano tragedie come quelle intercorse dal 2001 al 2005 forse sarebbe molto più efficace garantire la libertà di culto (non strepitare alla minaccia di apertura di una moschea), supportare i tanti e le tante che si stanno ribellando dall’interno del mondo musulmano (la maggioranza) e che rifiutano ogni ipotesi di religione intesa come guerra. Ma anche qui occorrerebbe lungimiranza. Si prendono più voti con gli strepitii in difesa dell’Italia bianca e cristiana (non è ancora dato sapere chi sta mettendo a rischio tale condizione) costruendo stereotipi dell’Islam che molto si rifanno a quelli diffusi nel periodo buio delle leggi razziali. Esistono, è innegabile, elementi di problematicità derivanti anche dal fatto che una società escludente per classe e per cultura come la nostra produce automaticamente esclusione, auto emarginazione, processi di costruzione di identità molto radicali e semplificatori. Ma anche questi potrebbero essere affrontati avvalendosi anche del prezioso supporto della maggior parte delle persone che pur professando la religione musulmana intendono costruirsi un percorso di vita all’interno di questo continente, vivendone in divenire le contraddizioni e le modalità di cambiamento. In altri termini: esclusione e relativismo generano specularmente forme di conservatorismo tradizionalista ancora più forti di quelle praticate nei paesi di origine, confronto aperto e paritario, aprono tanto nella società ospitante quanto in chi arriva, elementi propulsivi e dinamici di cambiamento dall’interno. Da ultimo dire che alcune fasi critiche potrebbero essere disinnescate, permettendo la realizzazione dello Stato di Palestina, come Stato sovrano o liberando il leader kurdo Ocalan, esempio di una forza laica e progressista, cominciare ad agire una politica estera realmente di cooperazione fra pari, se non risolverebbe nell’immediato offrirebbe meno spiragli ai venti di guerra.
C’è poi la perenne rappresentazione falsata. Per molti concittadini la parola immigrato si associa ancora unicamente a coloro che sbarcano nel meridione, all’elemento oscuro e pericoloso chiamato “clandestino” ai fatti di cronaca nera. Costa molto a politici e mezzi di informazione considerare il fatto che ormai dopo trenta anni la presenza migrante in Italia ha modificato strutturalmente la composizione sociale. Si tratta di un mutamento interno e non indotto, si tratta di quasi 5 milioni di persone che vivono, lavorano, soffrono e gioiscono, si sposano e si riproducono, vanno nelle scuole e cominciano a costituire una base fondamentale di quella che sarà la futura classe dirigente del Paese. Si impongono a volte in classe a volte nello sport e a volte nei luoghi di lavoro, sono fra i primi a sindacalizzarsi (solo la Cgil conta oltre 400 mila iscritti di origine straniera), pagano le tasse, diventano sempre più spesso imprenditori o magari si ritrovano insieme alle giovani coppie autoctone ma prive di reddito ad occupare immobili per risolvere il problema abitativo. Insomma, va riaffermato, l’immaginario delle barche e dei volti sofferenti è una parte anche marginale e non il tutto di questa società cambiata, dietro cui non ci sono solo numeri ma storie di vita terribilmente comparabili con quelle autoctone. La vita quotidiana di gran parte di questi uomini e di queste donne, tanto preziosi quando coprono nicchie economiche lasciate vuote, è scandita dalla assurdità dei tempi di rinnovo dei permessi di soggiorni, (costo dagli 80 ai 200 euro l’anno a persona) dalle difficoltà ad avere una residenza, ad una burocratizzazione sistematica della permanenza in Italia. Ed è curioso come chi, da una parte annuncia in continuazione la “lotta alla burocrazia” non semplifichi alcune procedure, ad esempio togliendo il ruolo di supervisore a prefetture e questure e lasciando le competenze agli enti locali. Avremmo le forze dell’ordine meno impegnate a certificare permessi e maggiore legame fra cittadino straniero e territorio. Un processo, anche selettivo, di responsabilizzazione che dovrebbe però condurre, come già affermato, alla cittadinanza, al diritto di voto, alla possibilità di contare anche nella vita delle amministrazioni cittadine. Il resto del mondo ci dimostra che laddove accade ed in maniera sistematica, gli elementi di problematicità si riducono esponenzialmente, il cittadino straniero non vede più l’amministrazione come un nemico da cui tenersi alla larga o come un elargitore di benefici nell’indigenza ma come un soggetto a cui ci si deve rapportare correttamente. Ed anche qui va tradotto in termini concreti, le persone di cui si parla sono i compagni di classe dei nostri figli, i colleghi di lavoro, i negozianti da cui si va a fare la spesa, i baristi e i ristoratori, i barbieri e parrucchieri, le persone, per lo più donne che si prendono cura di anziani, bambini e disabili, quel tessuto di welfare che lo Stato non garantisce più, se mai lo ha fatto, e che ci si deve pagare da se. Ma anche e soprattutto i tanti e le tante che incontriamo sui mezzi pubblici, negli uffici, nelle Asl, nei luoghi di ritrovo, non sono altri ma costituiscono un pezzo di paese, fondamentale che non è stato assimilato ma che si intreccia e realizza nuove identità sociali, spesso meticce.
La stessa categoria “immigrato” è ormai falsata e insufficiente a spiegare gli eventi: diversa è la vita di chi sta qui da 20 anni rispetto a chi è appena arrivato, diversa quella di chi ha studiato in Italia da coloro i cui titoli di studio conseguiti in patria non sono mai stati riconosciuti, diverso il ruolo di chi sfrutta e di chi è sfruttato, (il caporalato in edilizia e in agricoltura ne sono un esempio), diverso il punto di vista di chi si va costruendo un nucleo familiare qui da chi, soprattutto giovani maschi, vivono avendo come unico punto di riferimento i propri coetanei compaesani. Diversa è la vita, sembra banale dirlo, fra chi abita in una grande città da chi abita in provincia, fra chi ha gettato le basi per un progetto a lungo termine e chi annaspa in un presente precario e scivoloso. Ma non accade lo stesso a noi autoctoni? Non siamo anche noi figli di tale meccanismo che tante volte ci schiaccia? Su questo stesso filone si colloca la logica misera di chi si vede passare avanti nell’esigere diritti fondamentali da cittadini stranieri e ribatte “prima gli italiani”. La risposta è: perché? Se ancora crediamo in una carta costituzionale che sancisce l’eguaglianza di tutti davanti alla legge, allora è giusto che per il posto in un asilo nido o in una casa popolare, la graduatoria tenga conto delle esigenze reali e dello stato di necessità. Chi resta escluso dal soddisfacimento di tali bisogni dovrebbe avere il coraggio di prendersela con chi non commisura alle necessità reali le risorse necessarie e non a chi ha il solo “difetto” di provenire da un Paese diverso. Bisognerebbe rispondere “prima chi ha bisogno” e su questo aprire vertenze e conflitti in cui a schierarsi dovrebbero essere tutti coloro che sono esclusi da un diritto. Più difficile e problematico certo ma è la sola soluzione che si intravvede.
In conclusione, con buona pace dei Salvini di turno che diventano cerniera fra Marine Le Pen e Forza Nuova, dei penta stellati in affanno elettorale, dei Fratelli d’Italia bisognosi di una identità di destra, dei forza italioti che temono la concorrenza, del balbettio del Pd, fermare l’immigrazione è impossibile e “governarla” come dicono i moderati, altrettanto. È invece necessario rivedere, a livello continentale le politiche migratorie, meno spese alle agenzie di repressione e contrasto (Cfr Frontex) e maggiori investimenti per evitar la guerra fra ultimi e penultimi. Altro che 80 euro, quello che occorre è una redistribuzione delle risorse ed una crescita del livello dei diritti esigibili. Un asilo nido in più, una casa popolare, una scuola pubblica funzionante che possono diventare motori di inclusione sociale e di accettazione reciproca della fatica del vivere in una società multiculturale, sono gli unici antidoti all’imbarbarimento che si vive nelle nostre città. Costa fatica, tempo, energia e pazienza ma ci potrà permettere non di amministrare le macerie in nome dell’osservanza dei patti di stabilità ma di costruire futuro partendo dal presente. Chiedere di comprendere questo ai fabbricanti di paure diffuse è impossibile, informare meglio, in assenza di adeguati strumenti di comunicazione, sì.
Stefano Galieni
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