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Antagonisti a Torino: incarcerane uno per educarne cento

Torino continua ad essere un laboratorio di repressione del conflitto sociale. È accaduto da ultimo dopo le manifestazioni studentesche di febbraio: a scontri di modesta entità hanno fatto seguito carcere e arresti domiciliari anche nei confronti di ragazzi giovanissimi e incensurati. La logica è sempre la stessa: incarcerane uno per educarne 100.

di Claudio Novaro

Finalmente, dopo due mesi e mezzo di carcere, anche Francesco, il terzo studente torinese arrestato dopo il corteo studentesco del 28 febbraio scorso, è stato posto agli arresti domiciliari, come era già avvenuto per Jacopo ed Emiliano. I loro arresti e le successive misure cautelari hanno avuto, grazie anche all’impegno di singoli e associazioni (prime fra tutte le “Mamme in piazza per la libertà di dissenso”) una breve ma intensa notorietà mediatica. Si tratta di una vicenda che permette ancora una volta di ragionare sui dispositivi legati alla repressione giudiziaria e sulle modalità di utilizzo delle misure cautelari nei processi legati al conflitto sociale.

1.

In rapida sequenza i fatti, che necessitano, per essere adeguatamente compresi, di un breve passo indietro. Il 28 gennaio si tiene a Torino, come in diverse altre città d’Italia, una manifestazione studentesca contro l’alternanza scuola-lavoro, dopo le morti di due giovani studenti, Lorenzo Parelli e Giuseppe Lenoci, a Udine e Ancona. La polizia non permette il corteo e carica violentemente la manifestazione, provocando molti feriti tra gli studenti. Il successivo 18 febbraio 5.000 studenti scendono in piazza, rivendicando il proprio diritto a manifestare. Giunti nei pressi dell’Unione industriale, un nutrito gruppo tenta di forzare il cancello, in quel momento non presidiato dalle forze dell’ordine, e poi, all’arrivo di un drappello di carabinieri che chiude il varco appena aperto, usa aste di cartelli e bandiere, in legno o plastica, per colpire gli operanti. Le immagini dei tanti operatori dell’informazione presenti restituiscono con esattezza l’accaduto. Si percepisce una grande rabbia tra i giovani che viene sfogata con colpi ripetuti quasi tutti sugli scudi dei carabinieri, con l’evidente intento di superarne il cordone e di violare simbolicamente il santuario degli industriali, individuati come uno dei principali soggetti responsabili delle morti per incidenti sul lavoro.

Pacifica la qualificazione di queste condotte come resistenza a pubblico ufficiale, pacifiche le lesioni (modeste, tra i 3 e i 10 giorni) commesse nei confronti delle forze dell’ordine, pacifica altresì la particolarità del contesto e la non particolare gravità della vicenda se confrontata con altre accadute negli ultimi anni a Torino e non solo. Invece, la risposta repressiva arriva rapida, tempestiva e di grande impatto cautelare: tre misure della custodia in carcere, quattro arresti domiciliari, applicati a soggetti giovanissimi e incensurati, e quattro obblighi di presentazione quotidiana alla polizia. Tra gli indagati mandati ai domiciliari una ragazza a cui si contesta di aver effettuato attività di speakeraggio perché, mentre gli studenti cercavano di entrare all’interno del cortile dell’Unione industriale, li invitava a non farsi intimidire dalla Polizia, ad andare dentro, “espugnando” il palazzo degli industriali.

Nella ricostruzione dell’episodio fatta dalla Polizia e avallata da Procura e giudice della cautela, il meccanismo di sovradimensionamento dei fatti e di rafforzamento della pericolosità sociale dei giovani indagati passa attraverso tre modalità:

  1. l’eliminazione del contesto: scompaiono dal quadro di valutazione della vicenda la precedente manifestazione del 28 gennaio, le cariche violente della Polizia, la rabbia che circola nel corteo del 18 febbraio a causa di quelle cariche e dei tanti studenti feriti; scompaiono le motivazioni degli studenti, contro l’alternanza scuola-lavoro e contro Confindustria e, più in generale, contro i progetti di aziendalizzazione dell’istruzione;
  2. la militarizzazione del linguaggio: per definire l’azione degli studenti che riescono ad aprire un varco nella cancellata che separa la via dal cortile interno dell’Unione industriale la Polizia usa il termine “gruppo di fuoco”, che rimanda ad altre stagioni della storia di questo paese ma che, nel caso specifico, offre un frame, una cornice che consente un’immediata amplificazione della vicenda;
  3. il rilancio dell’idea cospirativa del conflitto sociale: già dalla manifestazione del 28 gennaio il ministro dell’interno Lamorgese aveva stigmatizzato in una dichiarazione uscita all’inizio di febbraio l’infiltrazione dei centri sociali nelle manifestazioni studentesche e, per quanto concerne Torino, «la regia dei militanti di Askatasuna». In realtà, di tale regia, a più riprese citata nelle annotazioni della Digos anche per i fatti del 28 febbraio, non vi sono prove, anzi tra i giovani gravati di misure cautelari per la manifestazione ve ne sono alcuni (che fanno riferimento all’area di Cambiare rotta, vicina a Potere al Popolo) che non sono riconducibili a nessuno dei due collettivi di studenti medi e universitari che si riuniscono presso il centro sociale; in più, molti tra gli autori della resistenza non sono stati individuati.

2.

Ciò che più sconcerta è però l’uso disinvolto delle misure cautelari, ormai altamente frequente nei processi legati alle proteste e alle lotte sociali. La domanda che occorre porsi non riguarda tanto i profili di responsabilità individuale o collettiva ma se una vicenda di questo cabotaggio e con questi protagonisti (come detto, tutti incensurati) meriti una risposta cautelare di questo tipo, così intransigente e afflittiva. La risposta negativa discende dalle regole stesse contenute nel codice di rito. Proviamo sinteticamente a ricostruirne anche in una prospettiva diacronica la trama.

Dopo gli esordi garantisti del nuovo codice di procedura penale, che considerava la custodia cautelare in carcere uno strumento eccezionale, le prassi giurisprudenziali affermatesi nel corso degli anni sono state molto più elastiche, influenzate da alcune riforme e dalle prassi applicative della giurisprudenza. Da sempre il settore cautelare ha risentito, sul piano legislativo, di un andamento a pendolo, con periodici interventi tesi volta a volta a privilegiare esigenze di sicurezza collettiva o di garanzia della libertà individuale. Nel 2013 è arrivata la pronuncia della Corte europea dei diritti dell’uomo (nel procedimento Torreggiani contro Italia) che, preso atto dell’endemico sovraffollamento carcerario, ha condannato l’Italia per la violazione dell’art. 3 della Convenzione europea dei diritti umani in tema di trattamenti inumani e degradanti, che «pone a carico delle autorità – secondo la Corte – un obbligo positivo che consiste nell’assicurare che ogni prigioniero sia detenuto in condizioni compatibili con il rispetto della dignità umana, che le modalità di esecuzione della misura non sottopongano l’interessato ad uno stato di sconforto né ad una prova d’intensità che ecceda l’inevitabile livello di sofferenza inerente alla detenzione». Di lì a poco il legislatore, tentando di limitare il ricorso al carcere, è intervenuto con una serie di novelle che hanno interpolato il testo di alcune norme in tema di misure cautelari, prevedendo in particolare che non sia applicabile la custodia in carcere se si ritiene che, all’esito del giudizio, «la pena detentiva irrogata non sarà superiore a tre anni» di reclusione e richiedendo un obbligo di motivazione specifico per il giudice sulla eventuale inidoneità della misura degli arresti domiciliari a salvaguardare le esigenze cautelari del caso concreto.

Si tratta di due capisaldi nella valutazione del giudice di merito che nel nostro caso sono stati tranquillamente ignorati. Anzitutto, chiunque conosca i livelli sanzionatori adottati negli ultimi 30 anni a Torino in tema di manifestazioni di piazza sa che mai si è superata, all’esito del giudizio, la pena di tre anni di detenzione. In secondo luogo, quella usata dal giudice per giustificare il ricorso al carcere appare una vera e propria petizione di principio. Egli sostiene che «forme di cautela diverse […] non appaiono compatibili con la personalità manifestata dai prevenuti» con conseguente giudizio di inaffidabilità sulla loro «capacità/disponibilità ad osservare le prescrizioni imposte». È l’esemplare dimostrazione di come non deve essere una motivazione di un provvedimento giudiziario, che non può risolversi nella descrizione della semplice convinzione del giudicante, attraverso una generica clausola di stile sulla personalità degli indagati (che il giudice non si affanna nemmeno a definire), ma deve offrire un percorso logico argomentativo controllabile, che spieghi come dalle risultanze acquisite si arrivi ad uno specifico risultato valutativo. Secondo la Corte di Cassazione e la Corte Costituzionale la materia cautelare deve ispirarsi al principio del «minore sacrificio necessario», vale a dire che la compressione della libertà personale va contenuta «entro i limiti minimi indispensabili a soddisfare le esigenze cautelari del caso concreto». Si tratta di un principio generale che dovrebbe orientare l’attività giudiziaria e che qui appare invece clamorosamente disatteso. Non solo, gli arresti domiciliari si possono negare solo se sia possibile prevedere che l’indagato si sottrarrà all’osservanza dell’obbligo di non allontanarsi dal domicilio, ma tale valutazione va coerentemente dimostrata e motivata e non data per scontata.

C’è di più. Ai due studenti mandati ai domiciliari dopo un periodo di carcerazione è stato imposto il braccialetto elettronico, è stato vietato ogni tipo di comunicazione con persone diverse dai familiari coabitanti. Sono, queste, misure che si impongono in ben altri casi, quando c’è la necessità, ad esempio nei reati associativi, di interrompere i rapporti con i sodali in libertà per evitare il rischio di commissione di nuovi reati, non certo in vicende relative a una manifestazione di piazza decisa estemporaneamente. Poiché al peggio non c’è mai fine, le richieste di uno dei due studenti di poter comunicare con la fidanzata, con il compagno della madre, con uno studente con cui doveva completare un lavoro per l’università, tutti incensurati e non coinvolti nelle vicende giudiziarie, sono state respinte con una motivazione pretestuosa che segnala, se ce ne fosse ancora bisogno, l’assai scarsa sensibilità (comune purtroppo a molti magistrati) per la libertà personale dei cittadini indagati.

3.

La morale che si trae da questa brutta vicenda è che i criteri che hanno orientato le decisioni giudiziarie del giudice e poi del tribunale del riesame non sembrano di tipo cautelare, vale a dire finalizzati alla tutela del processo o volti a prevenire il rischio di commissione di fatti della stessa specie, ma di altra natura. Il primo è in tutta evidenza di tipo punitivo: ti sanziono anticipatamente per quello che hai fatto attraverso una sorta di anticipazione della pena che ti verrà irrogata all’esito del processo. Il secondo è invece in senso lato preventivo, ma focalizzato sull’area politica della protesta sociale. Come scrivevano una volta le sentenze giudiziarie, ti mando in carcere (o ai domiciliari) perché sia di “severo monito” a te e a quelli con cui ti accompagni, perché ci pensino due volte prima di partecipare di nuovo a forme di conflitto di piazza.

A ben vedere, allora, forse un rimando agli anni ‘70 del secolo scorso questa vicenda lo ha, ma di segno contrario e ribaltato rispetto a quello evidenziato dalla Digos. «Colpiscine uno per educarne cento», dicevano i gruppi che praticavano la lotta armata. «Incarcerane uno per educarne cento», rispondono oggi gli attori della repressione giudiziaria.

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