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Alle radici del terrorismo

Quando, perché, come e dove si genera il terrorismo che il 7 gennaio ha massacrato Charlie Hebdo, ma prima s’è manifestato in tante occasioni e non solo col marchio “islamista”? La letteratura sull’argomento è ormai enorme, ma anche le descrizioni a volte corrette sono lacunose e mancano della lettura sufficiente per capirne le “radici” e gli eventuali rimedi.

Il “profilo” più credibile descritto da alcuni autori è che si tratta di giovani marchiati dalla disgregazione sociale, marginali spesso diventati devianti (alcool, droghe, spaccio, piccola delinquenza). Ma, come s’è visto anche a Londra e altrove, si tratta anche di giovani di buona famiglia, senza passato deviante, magari scolarizzati sino alla laurea eppure convertiti al radicalismo islamista sebbene prima atei o cristiani, o persino ebrei. Sarebbero tutti “infatuati” dal neo-mito (ma quanto vecchio) dell’“eroe negativo” che trova nello jihadismo una sorta di maniera di definirsi positivamente rispetto alla sua condizione di esclusione economica, sociale, culturale o dovuta a quel razzismo perfido di cui sono intrisi anche i ceti medio-alti. Non sopporta la mancanza di pari dignità, di rispetto per lui e i suoi simili, non trova lavoro o gliene offrono solo malpagato, inferiorizzato, nocivo o da delinquente, se laureato non ha le stesse chances di chi è wasp o di origini “DOC”.

Cerchiamo di andare alle radici: questi “radicalizzati” sono il prodotto di un preciso contesto (frame), cioè il frutto di una precisa costruzione sociale. È esattamente la conseguenza della profonda destrutturazione liberista dell’assetto economico, sociale, culturale e politico della società industriale in cui prima si situava l’immigrazione e i figli di immigrati e in generale delle classi subalterne o anche delle classi medie (che anche allora si rivoltavano diventando criminali – si pensi alla banda Cavallero e altri casi del genere – e in alcuni casi anche terroristi – si pensi a diverse biografie dei “rossi” e dei neri in Italia e altrove). Il liberismo ha smantellato il welfare, l’inserimento pacifico, l’assimilazionismo, l’integrazione sociale e culturale (di destra e di sinistra) (vedi Robert Castel) e ha innescato la criminalizzazione razzista. Le rivolte nelle banlieues cominciano nel 1985 ed emerge allora anche il lepenismo dapprima come razzismo anti-immigrati e antisemitismo e via via contro l’égalité e la solidarité

Liberismo oblige: l’accanimento per aumentare i profitti impone l’inferiorizzazione a cominciare dagli immigrati e dai loro figli per poi estenderla alla maggioranza della popolazione. Le rivolte delle banlieues sono palesemente contro il liberismo che fa dei giovani del popolo la “posterità inopportuna” (vedi Sayad), la racaille (feccia). E devastante e criminogena è la risposta a queste rivolte che da allora non smettono di riprodursi sia perché il liberismo si accanisce accentuando l’esclusione, la marginalizzazione in tutti i sensi, sia perché la risposta le alimenta. I governi da un lato perseguono la pura criminalizzazione razzista e dall’altro elargiscono qualche “caramellina” distribuita ai “docili” (una piccola minoranza dei giovani marginalizzati).

Per questo lavora in subappalto la schiera di educatori, assistenti sociali, psicologi, islamologi, antropologi, sociologi e politologi e varie ONG, spesso embedded, cioè il “terzo settore” di cui si serve la governance liberista privatizzando il welfare ed escludendo ogni effettivo risanamento delle cause che aggravano la disoccupazione, le economie sommerse, la destrutturazione economica e sociale. In trent’anni questa è la “carotina” elargita a una minoranza della “posterità inopportuna”, mentre alla maggioranza è rifilata la criminalizzazione razzista, sistematica e spesso assai violenta (vedi Rigouste e D. Fassin) in Francia con Sarkozy e poi con Valls. Di fatto si alimenta soprattutto la clientela elettorale dei partiti al governo parallelamente al business del sicuritarismo (più soldi alle polizie e ai dispositivi di sicurezza).

Nel frattempo, i discorsi più mediatizzati hanno confortato la governance che rifiuta di riconoscere le vere cause della fracture sociale, ossia dell’anomia prodotta dal liberismo. Tanti classificati come democratici o di sinistra da trent’anni veicolano bla-bla sulla crisi dell’identità, sulla crisi dei “valori”, genericamente contro il razzismo e l’antisemitismo, prescrivendo ricette a-sociologiche e a-politiche a favore di un trattamento psico-sociale di quasi nulla utilità (tranne che per i boss dell’”umanitario” che spesso sfruttano giovani precari malpagati). Da parte degli ideologi del liberismo, abbiamo avuto una produzione letteraria che, da Huntington e Fallaci a Houllebecq, ha sistematicamente rilanciato il sostegno alla guerra permanente/infinita (come diceva esplicitamente G. W. Bush).

È questo l’elemento chiave che marchia in maniera decisiva il frame liberista che s’è riprodotto soprattutto dall’inizio degli anni 1970: la rivoluzione liberista è stata la sovrapposizione di quella finanziaria/economica, di quella tecnologica e di quella politica, passata innanzitutto con la RMA (revolution in military affairs che è anche rivoluzione negli affari di polizia, vedi Alain Joxe). Il liberismo è sostenuto innanzitutto dalla lobby finanziaria-militare-poliziesca che ha assolutamente bisogno della riproduzione permanente delle guerre (unico modo per consumare i suoi prodotti… terribile ironia di questa guerra liberista: Coulibaly ha ucciso 4 persone nel supermercato casher con una mitraglietta israeliana). Questo alimenta il continuum delle guerre permanenti che diventano guerre per la sicurezza urbana, contro le rivolte nelle banlieues, la criminalizzazione razzista di rom e immigrati e persino la persecuzione dei barboni e la reintroduzione delle pene corporali per i minori al primo sospetto di loro devianza.

L’accanimento della carcerizzazione e della penalità e l’escalation delle violenze e torture con la conversione militare-poliziesca anche nelle carceri e il ricorso frequente a criminali e mafie per il lavoro sporco diventa un nuovo potente fattore criminogeno. La stigmatizzazione dei giovani che si sentono rigettati nella marginalità, insultati e senza futuro, spinge alcuni a cercare riconoscimento, gratificazioni o persino gloria nella loro stessa autodistruzione (sacralizzata nei media… lo jihadismo come ogni terrorismo dà l’illusione di un riconoscimento mondiale rispetto alla marginalità sociale e politica).

La “distrazione di massa” e la “distrazione” delle polizie e di parte della magistratura le orienta verso la criminalizzazione razzista (in nome della guerra all’islamismo radicale, all’antisemitismo, alla delinquenza giovanile quasi sempre classificata come manovalanza delle mafie, ai nemici della democrazia). Diventa allora ben prevedibile la deriva terrorista di “schegge impazzite” che trovano rifugio nelle proposte jihadiste o radicali, così come negli esempi di stragismo nichilista o di “umani-bomba”. Un comportamento non nuovo nella storia dell’umanità, cioè tipico di chi non intravede alcuna possibilità di negoziazione pacifica per soddisfare le sue rivendicazioni di miglioramento della propria vita.

È questo che il liberismo è riuscito a realizzare: l’erosione dell’agire politico, l’impotenza dell’azione politica per negoziare col potere. L’asimmetria di potere che s’è sviluppata con il liberismo ha eroso le possibilità di agire collettivo pacifico. Ecco perché il fenomeno del radicalismo islamista, come altri radicalismi o anche l’auto-distruzione e i suicidi “postmoderni”, è un “fatto politico totale”: investe tutti gli aspetti e sfere dell’organizzazione politica della società e degli esseri umani.

Ora, dopo il massacro di Charlie Hébdo, è probabile un nuovo rilancio della guerra permanente a tutti i livelli, subito invocata da alcuni che trovano ampio spazio mediatico. Mentre l’a-sociologia e i benpensanti si contenteranno di provare a suggerire qualche piccolo tampone per limitare il danno.

Salvatore Palidda

articolo pubblicato anche da Alfabeta2 ed in Francia su Médiapart

 

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