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Carcere: detenuto di 19 anni suicida a Venezia

L’ha fatta finita a Santa Maria Maggiore, Venezia. Era un ragazzo. Ed era stato arrestato per un furtarello prima di capodanno. Con l’anno nuovo si ricomincia la triste e inarrestabile conta delle morti in carcere. Domenica scorsa, un diciannovenne romeno, residente ad Appiano Gentile (Como), si è tolto la vita all’interno del carcere di Santa Maggiore a Venezia.

Era stato tratto in arresto alla vigilia di Capodanno per un reato contro il patrimonio, ovvero per un furto; un reato non grave, tanto è vero che il magistrato Andrea Gomez ha ritenuto dì non doverlo rinchiudere in carcere, ma affidarlo agli arresti domiciliari mentre è in attesa di giudizio.

La vicenda drammatica del ragazzo sarebbe iniziata con il fatto che i genitori avrebbero rifiutato di accoglierlo in casa. A quel punto, senza nessuna dimora dove scontare la custodia cautelare, al ragazzo è rimasta come una unica alternativa il carcere stesso. Ma non ha resistito perché dopo cinque giorni è stato ritrovato impiccato nella doccia della cella che divideva con altri detenuti. Nonostante il tempestivo intervento degli operatori sanitari del 118, per il giovane non c’è stato nulla da fare e, dopo numerosi tentativi di rianimazione, non e rimasto altro che constatare il decesso. Il ragazzo, sulla cui morte stanno attualmente indagando i carabinieri del nucleo investigativo, viveva in Italia da ben quattordici anni.

E un terribile dramma umano che mette di nuovo in luce il problema principale dei detenuti senza fissa dimora, e colpisce soprattutto gli stranieri. I reati di cui sono in genere responsabili i senza fissa dimora rientrano nella cosiddetta “micro-criminalità”: la scarsa gravità dei reati da una parte, e dall’altra i benefici previsti dalla legge per pene di questo genere (affidamento ai servizi sociali, semilibertà, etc. etc.), farebbero pensare a buone possibilità di reinserimento per questa area di detenuti.

Oppure, proprio per i reati non gravi, hanno la possibilità di non essere rinchiusi in carcere mentre sono in attesa di giudizio. La realtà è un’altra e possono accadere anche eventi paradossali come la storia del clochard arrestato perché era “evaso” dalla panchina. Era agli arresti domiciliari.

Ma non avendo una casa, aveva eletto come domicilio una panchina del parco di Borgosatollo, un paese alla porte di Brescia. E il giudice aveva dato parere favorevole. Ma quando i carabinieri effettuarono il solito controllo, non vedendolo sulla panchina, lo considerarono alla stregua di un evaso.

E così, per il 43enne Ilario Bonazzoli, questo il nome del clochard, nel 2009 per arrivata la condanna in primo grado a 10 mesi dì carcere: la motivazione suona come una beffa recitando che l’imputato era colpevole “per non essersi fatto trovare a casa nonostante fosse agli arresti domiciliari”. L’anno scorso la sentenza d’appello aveva ribaltato il primo grado e sancì che Bonazzoli doveva lasciare il penitenziario di Ivrea dove era attualmente detenuto.

Ma la questione del domicilio si ripropose inevitabilmente. Il problema, a quel punto, ricadde sui servizi sociali di Borgosatollo, dove il senza fissa dimora doveva risiedere: “Oggi come oggi, non saprei nemmeno dove alloggiarlo, non abbiamo strutture da offrirgli – commentò all’epoca il sindaco di Borgosatollo Francesco Zanardini. L’unico aiuto che gli possiamo dare è trovare una residenza fittizia”.

Per i senza fissa dimora, il carcere non sarà mai la soluzione e la punizione non è utile per la stessa sicurezza sociale. I comportamenti – considerati “devianti” dalla società – tendono a ripetersi nel tempo per assenza di alternative sostanziali. L’esperienza di detenzione infatti si inserisce in situazioni personali e familiari spesso deprivate sia dal punto dì vista economico che culturale: questa posizione di svantaggio – assieme alla carenza di risorse del sistema di sicurezza sociale – fa sì che chi “sbaglia” una volta, paga una pena doppia: cioè la detenzione e la successiva esclusione ripetuta esclusione del contesto sociale e lavorativo.

Chi ha precedenti penali infatti avrà sempre poche speranze di trovare un lavoro regolarmente retribuito. Ad aggravare questa situazione è l’assenza di una fissa dimora; la ricerca dì un lavoro si presenta pressoché impossibile a meno che non si reperisce una sistemazione alloggiativa, ma altrettanto irraggiungibile per una persona sola senza un reddito fisso. Altrettanto difficile è, per loro, usufruire delle misure alternative alla detenzione. La prima difficoltà è dell’ordine economico: l’impossibilità di pagarsi un avvocato fa sì che debbano ricorrere alla difesa dell’avvocato d’ufficio.

Inoltre non sempre dispongono delle informazioni necessarie per richiedere i benefici di cui hanno diritto: è necessario un collegamento con l’esterno, una conoscenza delle risorse del sistema sociale che chi vive per strada spesso non ha. Un ruolo decisivo, come abbiamo già raccontato, è di nuovo determinato dalla possibilità di avere una dimora stabile che è indispensabile per ottenere misure alternative come gli arresti domiciliari o l’affidamento in prova al servizio sociale o delle licenze. Sarà forse il caso di evocare meno “giustizia penale” e invocare, invece, più “giustizia sociale”?

Damiano Aliprandi da il Garantista

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da La Nuova Venezia

Arrestato per un reato contro il patrimonio, si è ucciso dopo che aveva visto sfumare gli arresti domiciliari. Si è impiccato a 19 anni, nella doccia di una cella del carcere di Santa Maria Maggiore. È morto così un ragazzo di nazionalità rumena, residente sin da piccolo in Italia, arrestato il 31 dicembre dai carabinieri su ordinanza di custodia cautelare emessa dalla Procura di Como, per un reato contro il patrimonio: nulla di così drammaticamente grave, tanto che il giudice per le indagini preliminari avrebbe disposto per lui gli arresti domiciliari, se non fosse che la famiglia ha negato l’autorizzazione ad accoglierlo in casa.

La madre sperava che tenendolo lontano dal Comasco, sarebbe rimasto fuori dai guai e si sarebbe disintossicato. Così il giovane è tornato in cella, ma al momento della doccia ha portato con sé un lenzuolo e si è impiccato nel piccolo bagno.

Nel tardo pomeriggio di domenica, l’allarme, dato dai due compagni di cella che hanno tentato inutilmente di aiutare il giovane, come vano è stato l’intervento del personale del carcere (prima) e dei medici del Suem 118 (dopo).

Non ha lasciato alcuno scritto o detto parole, riferisce il sostituto procuratore che si è occupato del caso la notte scorsa, Lucia D’Alessandro, che lasciassero presagire quanto compiuto. La procura lagunare tende ad escludere la responsabilità di terze persone sull’accaduto. Per più di un’ora i sanitari, intervenuti sul posto, hanno tentato inutilmente di rianimare il giovane detenuto romeno. Sulle ragioni legate alla mancata attuazione degli arresti domiciliari, il pm ha riferito che la questione era stata esaminata dalla Procura di Como.

Fino a tarda ora sono proseguiti gli accertamenti da parte dei carabinieri del Nucleo investigativo e dei Ris, alla presenza del pubblico ministero di turno, Lucia d’Alessandro. Non sono emerse responsabilità da parte del carcere, ma gli accertamenti proseguiranno con l’autopsia, affidata al medico legale Antonello Cirnelli: il suicidio di un ragazzo affidato allo Stato in un carcere è un dramma da chiarire in ogni aspetto.

 

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