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Giornalisti italiani bloccati e “censurati” dalle autorità ucraine

Andrea Sceresini e Alfredo Bosco sono due giornalisti italiani, che seguono dal 2014 il conflitto in Ucraina,  che si sono visti sospendere l’accredito senza precise motivazioni. Il governo ucraino ha dichiarato di dover effettuare accertamenti ma da due settimane  non ancora hanno avuto risposte e il governo Meloni tace.

Siamo due reporter freelance che dal 2014 seguono il conflitto in Ucraina.

Il 6 febbraio, ovvero ormai dieci giorni fa, mentre eravamo di ritorno dal fronte di Bakhmut, dove abbiamo realizzato un reportage per Rai3, il ministero della Difesa ucraino ci ha notificato la sospensione degli accrediti giornalistici.

«Da dieci giorni aspettiamo un interrogatorio del Sbu, i Servizi di Kyiv e ci è stato tolto l’accredito. E circola la voce, pericolosa in piena guerra, che saremmo “collaboratori del nemico”»

La sospensione degli accrediti – che ci erano stati regolarmente rilasciati nel marzo 2022 – comporta l’impossibilità di muoversi liberamente nel Paese, specie nelle zone vicino al fronte, e il rischio concreto di essere arrestati al primo posto di blocco. Di fatto, questo provvedimento ci ha messo nella totale impossibilità di lavorare e ha posto seriamente a rischio la nostra incolumità.

Nessuno ci ha comunicato le ragioni del provvedimento (entrambi siamo accorsi in Ucraina il 24 febbraio 2022 per raccontare le conseguenze dell’invasione russa, Bosco è stato probabilmente il reporter italiano che ha trascorso più tempo in Ucraina dal 24 febbraio, Sceresini ha da poco realizzato un reportage undercover in Siberia per raccontare il malcontento della popolazione russa e le molte diserzioni che si stanno verificando – il documentario è andato in onda in prima serata su Rai2 ed è visibile qui

Da un anno i nostri servizi dall’Ucraina vengono pubblicati da Rai, LA7, Mediaset, il manifesto, la tv tedesca Rtl, l’Espresso, il Fatto Quotidiano, le Figaro Magazine, la Croix, eccetera).

Tuttavia, le voci che si sono sparse tra i fixer ucraini che lavorano nel Donbass – e di cui abbiamo prova scritta – ci indicano come «collaboratori del nemico» – un’accusa che in zona di guerra può avere conseguenze molto serie.

L’unica notizia ufficiale che ci è giunta, nonostante i molti solleciti effettuati anche tramite la nostra ambasciata, riguarda un ipotetico «interrogatorio» al quale dovremmo sottoporci, e che dovrebbe essere eseguito dagli uomini dell’Sbu, il servizio di sicurezza ucraino.

Inizialmente questo «interrogatorio» avrebbe dovuto svolgersi a Kramatorsk, dove ci trovavamo il 6 febbraio: abbiamo subito fornito all’Sbu i nostri numeri di telefono e il nostro indirizzo, chiedendo che il colloquio potesse avere luogo il prima possibile.

Dopo cinque giorni di inutile attesa (trascorsi barricati in casa, in una città peraltro spesso bombardata dalle artiglierie russe), abbiamo deciso – dietro consiglio dell’ambasciata – di spostarci a Kyiv, dove hanno sede gli uffici centrali dell’Sbu: l’«interrogatorio», ci è stato detto, non si sarebbe più svolto a Kramatorsk ma nella capitale.

Da allora nulla più è successo. Nessuna notizia dall’Sbu, che abbiamo anche fatto contattare – inutilmente – da un avvocato ucraino; nessuna notizia dalla nostra ambasciata, né dalla Farnesina.

Il 14 febbraio a un altro nostro collega, Salvatore Garzillo, pure lui con alle spalle molti mesi di esperienza in Ucraina, è stato addirittura impedito di entrare nel Paese attraverso la frontiera polacca, in quanto «non gradito». Nemmeno a lui sono state fornite ulteriori spiegazioni.

Un’esperienza simile era toccata, a febbraio e aprile 2022, anche a Lorenzo Giroffi, che oggi lavora per la Rai.

Il sospetto – sulla base anche delle voci che sono circolate tra i fixer – è che alla radice di questi provvedimenti vi sia la nostra esperienza di lavoro giornalistico nelle repubbliche separatiste che, come centinaia di altri colleghi, abbiamo visitato più volte a partire dal 2014.

I nostri servizi dell’epoca riguardavano – tra le altre cose – il business delle miniere illegali gestite dai leader filorussi, la presenza in loco di volontari di estrema destra, anche italiani, e le faide interne ai governi delle repubbliche non riconosciute di Donetsk e Lugansk. Parallelamente – avendo peraltro ottenuto un apposito tesserino dell’Sbu – in quegli anni abbiamo ovviamente visitato il fronte anche sul lato ucraino, nella convinzione che quel conflitto, all’epoca dimenticato, andasse raccontato a tuttotondo e nel modo più onesto possibile.

Dal momento che anche Garzillo e Giroffi, esattamente come noi, sono stati in passato nelle aree controllate dai separatisti, viene logico pensare che i provvedimenti in questione mirino a colpire tutti quei giornalisti che non si sono limitati a frequentare i territori controllati da Kyiv – e che dunque, nonostante abbiano anche realizzato inchieste scomode nelle zone filorusse, vengono automaticamente considerati «collaboratori del nemico».

Si tratterebbe, insomma, di una operazione di censura preventiva ed epurazione, condotta peraltro con metodi a dir poco kafkiani.

Già nel 2015, con Lorenzo Giroffi, avevamo subito un simile provvedimento: all’epoca fummo accusati di essere entrati illegalmente nel Donbass passando dalla Russia. Nonostante i nostri passaporti – e l’accredito ATO rilasciato dal ministero della Difesa di Kyiv che ci era stato rilasciato – testimoniassero l’esatto contrario, nei nostri confronti era stato spiccato un bando che per cinque anni ci vietava di rimettere piede in Ucraina. Scontata questa «condanna», per quanto ingiusta, eravamo convinti di poter tornare a lavorare nel Paese, visto che è dal 2014 che ne seguiamo le vicende. Così è stato fino a dieci giorni fa.

Secondo quanto riferito ieri da fonti governative italiane, i giornalisti italiani bloccati in Ucraina in queste condizioni sarebbero “sette o otto”.

I silenzi della Meloni e del governo

Siamo al cospetto di un clamoroso sintomo della crisi in corso, nella quale la sorveglianza cibernetica e l’utilizzo strumentale dei vecchi e nuovi media svolgono una funzione cruciale.

La guerra ha tra i suoi bersagli, infatti, la libertà di informazione e -anzi- una delle novità orrende di un conflitto orrendo è proprio la caccia al cronista che cerca di raccontare la verità senza veli o bavagli. Non dimentichiamolo: la prima vittima di ogni guerra è proprio la verità. Nell’età dell’infosfera, poi, il giornalismo viene considerato parte integrante di tattiche e strategie dei comandi con le stellette, e non un’attività necessaria per conoscere e diffondere le notizie sotto l’egida dell’autonomia professionale.

I misfatti non vanno raccontati. La narrazione deve fermarsi ai confini decisi dalle autorità. Oltre, c’è la scossa elettrica e incombe la repressione autoritaria. Ecco il sottotesto.
Certamente, questo vale per L’Ucraina come per la Russia. Si tratta di una triste fenomenologia, tipica dell’involuzione autoritaria in atto. Tuttavia, ora si coglie un salto di qualità: il segreto è essenziale per coprire i traffici occulti delle armi e abbassare il sipario sulle verità scomode.
In fondo, WikiLeaks e Julian Assange hanno pagato per qualcosa di simile, in proporzioni maggiori, ma dentro il medesimo filo nero. Non si deve sapere, il re non è nudo.

Il sospetto, legittimo e non infondato, è che vi sia, tra l’altro, pure voglia di vendetta da parte dell’esercito di Kiev dopo la doverosa polemica che l’ha investito per l’uccisione nel 2014 -nel corso della guerra nel Donbass- del fotoreporter Andrea Rocchelli. Il caso, raccontato solo da alcuni giornalisti free lance allora presenti in Donbass, scotta ancora, eccome.

E, poi, è evidente l’avvertimento generale: chi esce dalla logica embedded rischia. Insomma, colpirne qualcuno, per educarne molti.
Che dice, dunque, il governo italiano? Per l’intanto, deve almeno rispondere alla tempestiva interrogazione parlamentare depositata dal segretario di Sinistra italiana, Nicola Fratoianni. Altre e altri parlamentari faranno lo stesso? Al momento, colpisce l’assenza di una reazione adeguata alla virulenza dell’attacco. L’associazione Articolo21 ha battuto un colpo, un po’ troppo sola. Come se la faccenda non riguardasse tipologie e modelli della comunicazione, toccando l’essenza di un diritto fondativo della democrazia, a prescindere dai diversi orientamenti politici e culturali. Tacere oggi ha un sapore corrivo e persino omertoso.

Che dicono le testate, Rai compresa, con cui i professionisti nel mirino collaborano costantemente? Senza i loro servizi, infatti, sapremmo ancora di meno. I telegiornali sembrano muti. Dimenticanza o soggezione?
Si è appena concluso il congresso nazionale della Federazione della stampa: ecco un compito immediato per il nuovo gruppo dirigente.
Serve, infatti, una mobilitazione forte e consapevole: ne va del diritto all’informazione.
Guai a sottovalutare i pericoli, quando si manifestano e assumono sembianze chiare. O aspettiamo che arrivino proprio i mostri?

da il manifesto

La corrispondenza di Radio Onda d’Urto da Kiev su questa situazione con lo stesso Andrea Sceresini  Ascolta o scarica

 

 

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