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60mila detenuti e il governo di destra butta la chiave

Carceri. «Chiudere, chiudere, chiudere». È oggi il mantra che si sente ripetere dalle parti del ministero della Giustizia, come se nulla fosse accaduto in passato

di Patrizio Gonnella da il manifesto

I detenuti hanno raggiunto la quota di 60 mila. Più o meno 10 mila in più rispetto alla capienza regolamentare. Numeri che non si vedevano da tantissimo tempo.

Era il 2013 quando l’Italia fu condannata per trattamento inumano e degradante a Strasburgo, da parte della Corte Europea dei diritti umani, nella famosa sentenza Torreggiani. I giudici affermarono perentoriamente che il sovraffollamento rendeva intollerabili le condizioni di detenzione nel nostro Paese. Fu allora che l’amministrazione penitenziaria, finalmente, si adeguò ai più elevati standard europei, proponendo modelli di vita interni più aperti e la possibilità per il detenuto comune di trascorrere almeno otto ore al giorno fuori dalle celle anguste e affollate.

«Chiudere, chiudere, chiudere». È oggi il mantra che si sente ripetere dalle parti del ministero della Giustizia, come se nulla fosse accaduto in passato. A ogni riunione in ambito penitenziario, alla quale partecipano esponenti di Governo, si invitano i direttori a chiudere i detenuti in cella, riproponendo modelli di detenzione pre-moderni, ben lontani da ogni ipotesi di pena umana e tendente alla risocializzazione.

È dunque oramai certificato il ritorno al passato: i detenuti devono restare fermi nelle loro celle e uscire da esse solo per partecipare ad attività particolari, scuola, lavoro o qualche altra forma di intrattenimento.

Questa è la nuova filosofia carceraria al tempo del governo delle destre. La pena della reclusione viene dunque intesa come reclusione in cella e non come reclusione in carcere. Cella e carcere vengono fatti coincidere pericolosamente. Si tratta di un regalo ai sindacati autonomi di Polizia Penitenziaria. Solo una quota minima di detenuti potrà aspirare a vivere in carceri aperte.

Saranno i destinatari di progetti di trattamento avanzato. Eppure nella legge penitenziaria del 1975, ancora prima all’articolo 27 della Costituzione, e nelle regole penitenziarie europee o in quelle Onu (Mandela Rules) non si dice che il trattamento finalizzato al ritorno verso la società libera sia qualcosa riservato solo a una sparuta e selezionata parte di detenuti.

Non c’è scritto da nessuna parte che la normalità del trattamento sia la chiusura nelle celle per venti ore al giorno. Non è così che si assicurano responsabilità, qualità della vita. Non è così che si costruiscono modelli di vita comunitari che assomiglino alla vita normale che i detenuti si ritroveranno nella libertà. Il sovraffollamento crescente riporterà l’Italia inevitabilmente davanti ai giudici di Strasburgo per la mancanza di spazi nelle celle e l’impossibilità di disporre di più di tre metri quadri a testa.

L’unica via di salvezza sarebbe stata la previsione di ampi momenti della giornata che si potessero trascorrere negli spazi comuni, ossia in carcere ma non in cella. La decisione di chiudere una gran parte dei detenuti nelle celle per molte ore al giorno asseconda il volere di retroguardie sindacali e fa male al sistema penitenziario italiano, rendendolo disumano e fragile davanti alle Corti.

Infine, in questo frangente due notizie di segno opposto. La prima è negativa e rischia di cambiare il volto delle nostre carceri. Con la contrarietà della Cgil, e gliene va dato atto, sta per essere approvata un riforma che produrrà una sovra-rappresentazione della Polizia Penitenziaria negli uffici dirigenziali dell’amministrazione penitenziaria, così spingendo verso un modello organizzativo di tipo marcatamente custodiale.

La seconda è una buona notizia. Nei prossimi giorni si insediano nuovi cinquantasette direttori, che arrivano dalla libertà dopo un anno di corso di formazione. Non accadeva da quasi trent’anni. Speriamo che una ventata di entusiasmo stravolga il nostro asfittico panorama carcerario.

 

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