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26 migranti bruciati vivi in Grecia

Cercavano rifugio nel bosco, condannati dalla nostra democrazia sicuritaria. I ventisei finiti come tizzoni e trovati ieri in quel bosco greco incenerito avrebbero potuto salvarsi, se non fossero stati costretti a nascondersi dopo essere fuggiti

di Iuri Maria Prado

Vivi, erano migranti. Vivi, erano clandestini. Ora sono delle cose di carbone. Ventisei cose di carbone. Erano scappati due volte. Prima erano scappati da chissà dove, fino al confine tra la Turchia e la Grecia. Poi erano scappati dai controlli che avrebbero messo in dubbio il loro diritto di oltrepassare quella frontiera. E così si sono rifugiati in quel bosco che ora li ha assimilati, consumandosi con loro nel fuoco e restituendoli all’ufficialità da cui si nascondevano. Somo morti bruciati nell’incendio. Nessuno li ha soccorsi.

Sono pagine meno abbondanti del genocidio dei migranti. La frequenza e la contabilità soverchiante delle morti in mare lasciano infatti ai margini delle cronache la vicenda degli esseri umani che insidiano i confini europei da est, e quasi non sappiamo che i resti di molti concimano le foreste balcaniche. Diciamo spesso, nella pietà per le vite affogate nel Mediterraneo, “cibo per i pesci”: è troppo raccapricciante pensare che lungo altre vie della migrazione, meno esposte al nostro monitoraggio, i resti di chi non ce l’ha fatta nutrono gli orsi e i cinghiali.

I ventisei finiti come tizzoni e trovati ieri in quel bosco greco incenerito avrebbero potuto salvarsi, come tanti altri, se non fossero stati costretti a nascondersi dopo essere fuggiti: se non fossero stati costretti, dopo aver lasciato il paese di provenienza, a nascondersi dalle autorità del paese che avrebbe dovuto accoglierli. Ed è questo un dato così appariscente e tragico della vita e della morte di tanti migranti: essi combattono per la vita, soccombendo, proprio nei paesi in cui speravano di viverla. Cercano un rifugio – un bosco, il fondo di un camion, un magazzino abbandonato – nel paese che dovrebbe dare loro rifugio.

Quando si dice che corrono il rischio di un viaggio pericoloso perché la vita nel paese da cui scappano è insopportabile, ebbene non ci si avvicina nemmeno alla realtà. Corrono il rischio ulteriore, infatti, di perdere la vita quando il loro viaggio è ben finito, quando il nemico non è più la guerra o la fame da cui scappavano e diventa invece la battigia che promette respingimenti, diventa l’ordinamento democratico che perlustra le zone di transito: quando il nemico diventiamo noi.

Nessun appello realista alle necessità di controllare i flussi, nessun proclama sull’esigenza di gestirne in modo efficace e compatibile l’ingrossamento può far accantonare lo scempio costituito dallo stillicidio di morti cui assistiamo “dopo” quei viaggi: e all’interno, non al di fuori, dei nostri confini. Che la vita del migrante sia in fuga prima verso di noi e poi da noi, dal nostro sistema di controlli, e che finisca incenerita appunto per sfuggire ai nostri blocchi, ai nostri rastrellamenti, al nostro scrutinio del suo diritto di salvarsi, è una condanna che nessuna ragione sicuritaria e di presunta tenuta sociale può toglierci di dosso. Facciamo anche peggio che non proteggerli dalle minacce altrui: non li proteggiamo da noi stessi, dalla minaccia che rappresentiamo per loro.

da l’Unità

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