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Carcere, basta con il populismo penale

Con un confronto in pubblico nel carcere romano di Rebibbia tra responsabili istituzionali e coordinatori dei diciotto tavoli di lavoro che hanno loro dato vita, si chiudono lunedì e martedì prossimi gli Stati generali dell’esecuzione penale voluti dal ministro della giustizia Andrea Orlando. Si è trattata di una forma di partecipazione e di condivisione inedita che ha coinvolto direttamente alcune centinaia di persone (operatori professionali e volontari, studiosi, attivisti e conoscitori del mondo dell’esecuzione penale) nella elaborazione di possibili linee-guida per il futuro del penitenziario.

La necessità era lì, evidente. Dopo la condanna della Corte europea per i diritti umani per i trattamenti inumani e degradanti inflitti ai detenuti in condizione di sovraffollamento, l’intero sistema penale – dagli operatori di strada ai vertici politico-amministrativi – ha lavorato nella direzione della riduzione della popolazione detenuta, con interventi legislativi mirati e con la giusta misura nell’applicazione delle norme incriminatrici e carcerogene. In poco più di due anni la popolazione detenuta è diminuita di circa 14mila persone, salvando il nostro Paese da nuove infamanti condanne. Ma questo risultato è stato il frutto di una eccezionale mobilitazione di tutti gli attori del sistema, altrettanto eccezionalmente sostenuta da una diffusa indignazione nell’opinione pubblica per le condizioni di detenzione riscontrate dalla Corte europea e ampiamente documentate dalla stampa e dai periodici rapporti di Antigone (il prossimo sarà presentato a Roma venerdì). Chiunque abbia seguito l’evoluzione del sistema penitenziario italiano negli ultimi venticinque anni, viceversa sa che il sovraffollamento penitenziario – in Italia come altrove – non è stato frutto eccezionale del caso, ma l’inevitabile conseguenza di un modello sociale e di un sistema politico fondati l’uno sulla esclusione sociale della marginalità e l’altro sulla raccolta di consensi nelle campagne di law and order. La condanna europea (come altre, analoghe decisioni delle corti supreme e sovranazionali in altri Paesi) ha semplicemente registrato la rotta di collisione tra quel modello sociale e i fondamenti dei nostri ordinamenti giuridici, riconosciuti nella dignità di ogni essere umano e nella universalità dei diritti fondamentali della persona. Il sistema ha reagito con prontezza ed efficacia, ma non ci si può nascondere che i risultati raggiunti sono tutt’altro che consolidati. Basti vedere i dati sulle presenze in carcere negli ultimi tre mesi per scoprire che la popolazione detenuta ha ripreso a crescere al ritmo di cinquecento persone al mese. Un segno preoccupante degli esiti che può avere un calo di tensione sulle condizioni di detenzione e, peggio, di nuove – assai prossime – contese elettorali intorno alla «sicurezza dei cittadini».

Per questo erano necessari gli Stati generali dell’esecuzione penale: per consolidare un orientamento politico e culturale nella direzione della decarcerizzazione e delle alternative all’esecuzione penale detentiva. Pur nella babele delle lingue e nelle differenze culturali e professionali, i tavoli di lavoro hanno mostrato di voler andare in quella direzione. Adesso spetta al governo e al ministro fare tesoro di questa elaborazione diffusa, se non per una riforma compiuta del sistema penale e penitenziario, almeno per resistere alle sirene risorgenti del populismo penale che vedono nella centralità del carcere il proprio faro e la propria guida.

Stefano Anastasia da il manifesto

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