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Migranti, bloccati dal virus nei ghetti senza cibo e senza lavoro

Nella Piana di Gioia Tauro la stagione è finita ma i migranti senza contratto non possono partire

«Sono bloccati nella Piana di Gioia Tauro, vivono in condizioni terribili e hanno paura di contrarre il Covid-19, “l’Italia ci riserva il posto degli animali”» ci dicono. Ruggero Marra è un delegato Usb di Reggio Calabria ed esponente di Potere al popolo, segue le lotte della comunità di braccianti africani della zona, che da settimane si riuniscono per cercare di organizzarsi.

«NON HANNO PIÙ CIBO – spiega – perché molti non stanno lavorando, stiamo portando pacchi alimentari ma la situazione è tragica». Tra la tendopoli ufficiale di San Ferdinando e gli altri insediamenti informali sparsi nell’area, sono circa 1.200 i braccianti migranti: la stagione nella piana è praticamente finita, la maggior parte sta cercando vie di fuga per raggiungere Puglia, Basilicata, Campania, Piemonte ma chi non ha il contratto viene fermato ai posti di blocco. «Circa in 70 sono riusciti a spostarsi. Probabilmente i datori di lavoro hanno mandato i contratti via mail pur di avere la manodopera disponibile per i loro raccolti».

I PIÙ FORTUNATI lavorano nelle serre: dalle 7 di mattina alle 5 del pomeriggio per 35 euro al giorno, il contratto che firmano prevede un compenso più alto per meno ore ma sono i compromessi che devono digerire per avere un impiego. Raccolgono zucchine e fragole: «Un ragazzo mi ha raccontato che mascherina e guanti li ha avuti il primo giorno e poi basta. Così preferisce usarli quando esce. Raccoglie fragole nel vibonese, a 30 chilometri da Gioia Tauro. Ha la schiena rotta perché è particolarmente faticoso raccogliere fragole ma, rispetto agli altri, si sente fortunato perché vive in una casa». Gli altri restano negli accampamenti con la paura del contagio.

LA CONDIZIONE PEGGIORE si registra nel ghetto di contrada Russo a Taurianova, a pochi passi da Rosarno: è il campo messo peggio, circa 300 persone vivono in baracche fatiscenti senza servizi igienici né acqua, in edifici ricoperti d’amianto. Un mese fa la regione Calabria ha inviato a San Ferdinando una cucina da campo: la comunità l’ha rifiutata in segno di protesta. «Il problema non è cucinare. Non vogliono che venga abbellito il ghetto, vogliono uscirne, affittare una casa – spiega Marra -. Qualcuno ci è riuscito: pagano regolarmente il canone perché non vogliono avere problemi con il permesso di soggiorno ma c’è molta diffidenza da parte dei proprietari. Avevamo chiesto alla regione di istituire un fondo di garanzia ma gli enti pubblici concepiscono solo interventi compatibili con lo stato di emergenza, non fanno nulla per superarlo».

BLOCCATI NELLA PIANA, in molti hanno contattato il sindacato per ottenere il bonus di 600 euro per chi ha avuto registrate almeno 50 giornate lavorative nel corso del 2019: «Sono convinti di avere i requisiti ma, purtroppo, nella stragrande maggioranza dei casi i datori di lavoro registrano pochissime giornate e così svanisce l’opportunità di avere il sussidio che li avrebbe aiutati ad andare avanti. Quello che è peggio è che nella realtà fanno molte più ore. Ore che però finiscono ai falsi braccianti italiani, che non hanno mai messo piede in campagna. Siccome i controlli non ci sono, questa è diventata la prassi. Così la rabbia nella comunità aumenta».

I GHETTI non si riempiono solo di braccianti ma anche di disperati che sono stati espulsi dal circuito dell’accoglienza e non trovano riparo altrove. Tre settimane fa in quello di Taurianova un uomo con problemi psichici ha ucciso senza motivo un ragazzo maliano di 28 anni colpendolo ripetutamente alla testa: «È una morte da ghetto – conclude Marra -, una morte di chi vive in condizioni impossibili. Il dibattito sulla regolarizzazione di questi giorni è vergognoso: sono tutti preoccupati di metterli al lavoro e nessuno considera i loro diritti». E Viola Carofalo, portavoce di Pap: «Giustizia e diritti non possono essere legati a se e quanto produci. Si è parlato di un permesso temporaneo, si tratterebbe quindi di una regolarizzazione “tampone” che non risolve il problema dei diritti e dei documenti. Risponde solo al bisogno immediato di manodopera delle aziende».

Adriana Pollice

da il manifesto

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L’agricoltura non è solo questione di frutta e verdura

Il problema con l’immigrazione – scriveva Max Frisch oltre mezzo secolo addietro – è che «cercavamo braccia e sono arrivati esseri umani, (Menschen)».

Si tratta di una contraddizione assolutamente insanabile che ha posto seri problemi al capitalismo e alle classi dirigenti dei paesi di immigrazione le quali hanno tentato sempre di porvi rimedio con la stessa soluzione: l’utilizzo dei migranti per lavoro stagionale. In questo modo si hanno le braccia a disposizione per un periodo limitato senza il fastidio di avere a che fare con esseri umani, persone che rischiano di accampare diritti sociali e civili.

Questa storia antica riguarda in modo particolare l’agricoltura. Sia in sistemi agricoli tradizionali che nelle moderne agricolture capitalistiche, anche tecnologicamente avanzate, il ricorso all’immigrazione temporanea ha avuto ed ha un ruolo assolutamente determinante per alcuni ordinamenti colturali. Si tratta soprattutto delle produzioni ortofrutticole come in California o nelle aree ad agricoltura ricca del Nord e del Sud d’Italia.

Le migrazioni rurali, temporanee per definizione, storicamente non hanno conosciuto confini. In Italia dalle aree di piccola e povera agricoltura contadina o del bracciantato precario delle aree capitalistiche si partiva per regioni vicine e lontane nel paese e all’estero. Il lavoro stagionale alleggeriva la pressione sulla terra dell’azienda contadina e compensava la sottoccupazione endemica del bracciantato precario.

I contadini piemontesi partivano per la vendemmia in Francia e le mondine del Mantovano partivano verso i campi di riso del Vercellese per un paio di messi di duro lavoro. Questi e altri lavoratori stagionali scomparvero poi cacciati dallo sviluppo tecnologico dell’agricoltura (nelle risaie le mondine furono sostituite dagli erbicidi fitoselettivi ) o attratti dallo sviluppo industriale del paese.

Ma non diminuì il bisogno di braccia per lavori precari e stagionali nel quadro di uno sviluppo agricolo basato sul modello californiano: agricoltura ricca e mano d’opera povera. A soddisfare questa necessità a partire dagli anni settanta hanno provveduto gli immigrati provenienti dal terzo mondo ai quali si sono aggiunti negli anni novanta i cittadini dei paesi dell’Europa dell’Est.

Il nesso tra ricchezza dell’agricoltura e povertà della mano d’opera non ha nulla di paradossale. Il modello è reso possibile dall’esistenza di uno sterminato esercito operaio di riserva che ha sempre garantito la disponibilità di una mano d’opera tanto più sfruttata e ricattabile quanto maggiore era la condizione di irregolarità.

Poi nel nostro paese ogni tanto arrivavano le benemerite sanatorie e ciò permetteva a molti di uscire dal ghetto e trovarsi una occupazione migliore. Così in agricoltura restavano gli ultimi arrivati e quelli più sfortunati. Ma la sanatoria faceva di nuovo diventare le «braccia» esseri mani.

A correre ai ripari in Italia furono Bossi e Fini con la loro legge di peggioramento del T. U. delle leggi sull’immigrazione e l’introduzione, al posto del permesso di soggiorno, di un nuovo tipo di permesso altamente limitativo dei diritti dei lavoratori: «il contratto di soggiorno» che legava la possibilità di ingresso e permanenza dell’immigrato a uno specifico contratto di lavoro allo scadere del quale era previsto il ritorno in patria.

Non si trattava di una novità. Esprimenti di questo tipo erano stati fatti in vari paesi – in particolare negli Stati uniti d’America con il cosiddetto «bracero program» – ed erano risultati fallimentari. Il programma americano iniziato ai tempi della seconda guerra mondiale fece entrare negli Stati uniti milioni di immigrati messicani destinati al lavoro agricolo stagionale, che però restarono in larga parte definitivamente. Nel 1964 il programma fu abolito per iniziativa dei sindacati.

In Italia con l’allargamento dell’Unione europea e l’ingresso dei paesi più poveri dell’Est il sogno padronale della stagionalità cominciò per qualche verso a realizzarsi. Titolari del diritto di muoversi all’interno dei confini dell’Ue lavoratori rumeni e bulgari- certo non i più forti sul mercato del lavoro – cominciarono a emigrare secondo un modello di emigrazione stagionale: una pratica seguita informalmente come ai vecchi tempi.

Ma ecco che arriva il coronavirus: con la paura e il lockdown è difficile muoversi. La frutta e la verdura soprattutto al Nord rischiano di non essere raccolte se i migranti non arrivano. Ed allora si invocano corridoi umanitario-vegetali per far venire gli stagionali: è la sofferenza per la frutta e la verdura che intenerisce non quella dei lavoratori.

D’altra parte soprattutto nel Mezzogiorno gli immigrati dell’agricoltura bloccati nei ghetti sono spesso irregolari e non possono muoversi per andare a lavorare. Rischiano fermi di polizia, fogli di via, rimpatri forzati. A meno di una immediata regolarizzazione per motivi umanitari possono contare solo sulla carità privata o sull’aiuto di amici e gruppi di solidarietà. E il problema non riguarda solo gli irregolari nelle campagne.

Nelle stesse condizioni si trovano badanti e soprattutto lavoratori domestici delle grandi città. Neanche essi possono muoversi e andare lavorare perché corrono gli stessi rischi. Come fanno il colf equadoregno o la badante a ore ucraina, da anni a Roma senza permesso di soggiorno regolare, a recarsi da Torre Spaccata dove abitano ai Parioli o al quartiere africano dove risiedono i loro datori di lavoro?

Anche per loro è urgente la regolarizzazione. Non è solo una questione di frutta e verdura.

Enrico Pugliese

da il manifesto

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