«Così la magistratura smantella il modello di accoglienza di Riace »
- ottobre 17, 2017
- in interviste, migranti
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Intervista a Mimmo Lucano, sindaco di Riace: “Per me è molto più importante la giustizia sociale che la legalità”
«Ci hanno bloccato di nuovo i fondi. Così sarà la magistratura a mettere la parola fine all’accoglienza». Sono questi i primi effetti dell’avviso di garanzia notificato al sindaco di Riace Domenico Lucano, accusato di abuso d’ufficio, concussione e truffa. Affidamenti diretti, bonus sociali e borse lavoro sono finiti nel mirino della magistratura, passando dall’essere pregi a difetti. A far finire il nome di Lucano in un’indagine della Procura di Locri è stata una relazione della Prefettura che evidenziava criticità burocratiche, contestate punto per punto dal sindaco. Che, dopo la prima visita ispettiva, aveva richiesto nuovi sopralluoghi, i cui esiti non sono stati resi noti. Tutto sembrava essere rientrato mercoledì scorso, quando dal Viminale erano arrivate rassicurazioni sulla continuità dei fondi a sostegno dei progetti di accoglienza, che hanno ripopolato un borgo ormai al tramonto realizzando l’utopia dell’integrazione. Ma quei fondi, ora, sono di nuovo bloccati.
Sindaco, stando alle accuse, lei con l’accoglienza si sarebbe arricchito.
Volete conoscere la mia situazione patrimoniale? Ve la racconto. Sono in aspettativa come assistente di chimica. Prendo 1050 euro di indennità da sindaco che finiscono su un conto corrente postale col quale pago le rate della macchina e dopo gli ultimi prelievi mi sono rimasti 450 euro. Mi hanno dato un premio per la pace di 10mila euro a Dresda e ho dovuto aprire un contro apposta per farmeli versare, ma tra me e i miei figli abbiamo speso tutto. Ci sono rimasti 180 euro. Non ho proprietà e la casa in cui vivo me l’ha lasciata mia madre. Ho tre figli: Roberto lavora a Roma in un’azienda di programmazione, Martina è all’università e vive col fratello, Eliana sta con la mia ex moglie a Siena, che lavora in un asilo nido e a volte assiste i malati terminali. Lei ha avuto un ruolo centrale nello sviluppo del laboratorio tessile in cui lavorano i migranti e senza mai guadagnarci nulla. Mio padre Roberto ha 90 anni, è un maestro in pensione e quando la riscuote ne dà metà a me e mio fratello. Se mi fanno qualche multa me la paga lui, anche di nascosto. Questa è la mia realtà e non ho nessun problema che mi facciano indagini. È la prima volta nella mia vita che ho a che fare con un avvocato. Ha detto di non voler essere pagato, non avrei soldi per farlo. Ma devo cercare di difendermi, perché ci sono cose strane. Non voglio dire, come fanno tutti quando vengono indagati, che è colpa della politica. Io non voglio niente, non voglio nessuno scontro.
La Guardia di Finanza ha passato in rassegna i documenti dell’accoglienza. Cosa hanno trovato?
Nulla, ho dato loro anche le chiavi della mia casa e li ho invitati a rimanerci pure tutta la notte per cercare ovunque, tanto non c’è nulla. Ho già chiesto di essere sentito dai magistrati, non mi voglio nascondere dietro il silenzio: martedì risponderò a tutto. Più vanno in fondo a scoprire la verità più sono contento. Quello che dirò alla Procura è quello che dico a tutti. Siete tutti giudici del mio operato. Quello che facciamo non segue effettivamente le linee guida dello Sprar, perché quelle linee guida ci dicono che dopo sei mesi i migranti devono andare via. Ma questo non è compatibile con una dimensione umana dell’accoglienza, le persone non hanno una scadenza. Ma non posso accettare che per colpa mia si debba mortificare un ideale. Non posso permettere che finisca come al solito, con la gente che dice: tanto sono tutti uguali.
A livello burocratico è vero però che non c’erano bandi per la gestione dei servizi.
Se c’è una responsabilità in questo senso, allora è condivisa dalla Prefettura, perché quando convenivano gli affidamenti diretti durante le emergenze degli sbarchi ne usufruiva, chiedendomi posti per accogliere i migranti immediatamente. La verità è che si tratta di un sistema caotico, nel quale noi ci siamo distinti. Alla maggior parte delle persone non interessa cosa genera l’accoglienza sul territorio, ma cosa genera all’interno delle cooperative. Io sono un sindaco, devo avere un altro sguardo.
C’è un’altra accusa molto grave, la concussione.
Quando ho capito cosa vuol dire ho pensato che sarebbe meglio ammazzarmi che fare una cosa così. Si parla di fatti avvenuti il 19 dicembre. Penso sia qualcuno che ha millantato di aver subito pressioni da parte mia. Forse si riferiscono a quelle registrazioni rubate con le quali volevano farmi passare come il sindaco che pilotava gli appalti. A me viene da ridere di fronte ad un’accusa del genere.
Quali sono le differenze tra il suo progetto e gli altri?
Gli altri fanno il compitino e si fermano lì. Il nostro è stato un processo naturale, nato dall’utopia di credere che fosse possibile recuperare l’identità dei valori umani in Calabria. Abbiamo lavorato per i primi quattro anni senza soldi, riuscendo a risvegliare l’identità dei luoghi e facendola diventare un’opportunità. Abbiamo capito subito che far stare gli immigrati in una camera, come in un albergo, non portava a niente: si sarebbe fermato tutto là, senza portare rigenerazione sociale al territorio. E la gente avrebbe guardato tutto con sospetto. Noi abbiamo visto un’opportunità di turismo solidale: l’accoglienza non può essere unilaterale, deve riguardare anche il territorio. Abbiamo coltivato anche il valore del dopo.
Come vengono utilizzati i famosi 35 euro a migrante?
Con quei soldi ci dobbiamo preoccupare di sopperire le lacune dello Sprar ( Sistema centrale di protezione richiedenti asilo e rifugiati, ndr), ci dobbiamo soffermare a guardare all’integrazione, mentre alla maggior parte degli altri gestori non frega niente. Con quei soldi diamo vitto e alloggio ma anche laboratori, la fattoria didattica, la raccolta differenziata. Adesso stiamo facendo un frantoio. Di tutto questo hanno usufruito i rifugiati, che hanno contratti di lavoro, e le persone del posto: è questa la differenza con gli altri. Mi auguro che anche i magistrati capiscano che altrove si arricchisce chi accoglie e non chi viene accolto.
È una questione di giustizia sociale, dunque?
Sì. Per me è molto più importante la giustizia che la legalità. Questa parola mi dà fastidio, perché a volte è una gabbia che produce illegalità, specie nella nostra terra. Noi abbiamo voluto dire al mondo che la Calabria è anche questo, la costruzione di una struttura umana e non solo case e lavori pubblici. Da tutta questa storia non ho guadagnato nulla, ho solo perso la famiglia. Ma ho demolito quel paradigma che vuole che chi fa il sindaco si faccia i fatti suoi. Mi dicono che sono uno stupido ma non mi importa.
Simona Musco da il dubbio