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In un giorno uccisi quattro palestinesi e le forze israeliane demoliscono una scuola elementare durante le lezioni

Nuove letali incursioni dell’esercito dello Stato ebraico nei Territori occupati. Un quinto palestinese è stato ucciso dopo aver investito intenzionalmente una israeliana con la sua automobile. A Isfey Al-Fouqa, un villaggio all’interno del complesso di Masafer Yatta, nella Cisgiordania meridionale occupata, il 23 novembre le forze israeliane hanno demolito una scuola elementare palestinese frequentata da 22 studenti, provenienti da quattro diverse comunità

Giunto ai suoi ultimi giorni da primo ministro, Yair Lapid ha inviato una lettera a più di 50 capi di stato e di governo in cui esorta a fermare i palestinesi intenzionati a sollecitare le Nazioni unite ad applicare la risoluzione approvata all’inizio di novembre che chiede il parere consultivo della Corte internazionale di giustizia sull’occupazione militare israeliana, la colonizzazione ebraica e i piani di annessione allo Stato ebraico del territorio palestinese. Secondo Lapid sarebbe in atto «uno sforzo concertato contro Israele, per screditare le legittime preoccupazioni degli israeliani sulla sicurezza e per delegittimare l’esistenza» dello Stato ebraico.

Il premier israeliano uscente, un paio di mesi fa, si era detto a favore della soluzione a Due Stati (Israele e Palestina). Ma questa soluzione non potrà mai essere realizzata se prima non avrà termine l’occupazione militare israeliana dei territori di Cisgiordania, Gaza e Gerusalemme Est cominciata nel 1967. Occupazione presente in ogni momento dell’esistenza degli occupati e che ha colpito anche ieri: quattro palestinesi sono stati uccisi dall’esercito israeliano durante incursioni in Cisgiordania alla ricerca, sostiene Israele, di «sospetti terroristi». A Kafr Ein sono stati uccisi due fratelli, Zafer e Jawad Rimawi. A Beit Ummar (Hebron) è stato colpito a morte Mufid Khalil. Il poliziotto dell’Anp Raed al Naasan è stato ucciso durante scontri nel villaggio di Al Mughayer (Ramallah).

Un quinto palestinese, Rani Fayez, è stato ucciso a Betunia dopo che, stando al bollettino diffuso dal portavoce dell’esercito, aveva investito intenzionalmente con la sua automobile una colona israeliana appena uscita da un parcheggio. Inseguito, Fayez è morto sotto i colpi d’arma da fuoco sparati dalla polizia israeliana. Il portavoce militare ha spiegato le uccisioni come atti di «legittima difesa». Diverso il giudizio dei palestinesi della Cisgiordania. Il primo ministro dell’Autorità nazionale palestinese (Anp) Muhammad Shtayyeh ha definito «un crimine atroce» l’uccisione dei due fratelli. «Siamo di fronte a una escalation – ha detto – che porta il presagio di grandi pericoli». «Con la continua dichiarazione di guerra al nostro popolo, chiediamo ai paesi del mondo di intervenire con urgenza per fermare e frenare la macchina per uccidere israeliana».

L’escalation di questi ultimi giorni, segnati anche da un attentato a Gerusalemme Ovest in cui sono morti due israeliani, rischia di aggravarsi nelle prossime settimane quando la palla passerà al nuovo governo di estrema destra che sta formando Benyamin Netanyahu. Preoccupa più di tutto l’incarico di futuro ministro della Pubblica Sicurezza, con poteri speciali, assegnato a Itamar ben Gvir, il leader del partito razzista Otzmah Yehudit. Stando ai media israeliani i comandi militari hanno avvertito Netanyahu che la situazione potrebbe precipitare in una terza Intifada palestinese se ci saranno provocazioni da parte dei suoi ministri ultranazionalisti.

Nella regione intanto cresce il rischio di una nuova guerra. Manovre aeree che simuleranno attacchi contro le centrali nucleari iraniane sono state avviate ieri dalle aviazioni militari di Israele e Stati Uniti. Si tratta di una delle esercitazioni congiunte più ampie ed impegnative degli ultimi anni.

A Isfey Al-Fouqa, un villaggio all’interno del complesso di Masafer Yatta, nella Cisgiordania meridionale occupata, il 23 novembre le forze israeliane hanno demolito una scuola elementare palestinese frequentata da 22 studenti, provenienti da quattro diverse comunità. Durante l’orario di lezione i soldati sono arrivati sul posto con un bulldozer, lanciando bombe vicino all’edificio per avvisare della loro presenza, e costringere i bambini a sgomberarlo prima della demolizione.

L’ordine di abbattimento è stato emesso dall’Alta Corte di giustizia israeliana, che quello stesso mercoledì ha revocato un’ingiunzione che fino a quel momento aveva bloccato la demolizione della scuola. Secondo il COGAT (l’ente militare israeliano di proprietà del Ministero della difesa che coordina e gestisce le attività governative nei territori occupati) quell’edificio era stato costruito illegalmente in un’area proibita, e per questo andava rimosso.

La scuola, che si trovava in una zona in cui ai residenti tocca spesso fare i conti con sfollamenti forzati, è riuscita a rimanere in piedi per poco: era stata costruita da circa un mese ed era entrata in “funzione” da ancora meno, all’incirca un paio di settimane prima della demolizione. Secondo quanto raccontato da alcuni attivisti ad Al-Jazeera, la sua costruzione – insieme a quella di almeno altre 12 strutture simili – era stata prevista da un programma del Ministero dell’Istruzione dell’Autorità Palestinese, finanziato dall’Unione Europea, per favorire lo sviluppo palestinese nonostante le restrizioni e le pressioni israeliane.

Tra l’altro la scuola di Isfey Al-Fouqa a Masafer Yatta – una regione che in tutto ospita più di 1.200 palestinesi, tra cui 500 bambini – era l’unica in zona che fornisse istruzione ai suoi abitanti e «quando la polvere si posa su una scuola che ora è ridotta in macerie, 22 bambini palestinesi si chiederanno cosa hanno fatto per meritarsi che la loro scuola fosse abbattuta dai bulldozer israeliani”, ha detto Caroline Ort, rappresentante per la Palestina della Norwegian Refugee Council, un’organizzazione umanitaria non governativa che protegge i diritti delle persone colpite dallo sfollamento.

Quello di Isfey Al-Fouqa potrebbe non essere l’unico episodio di questo tipo. Ad oggi in tutta la Cisgiordania occupata sono 57 le scuole a rischio di demolizione, istituti che ospitano quasi 7mila studenti, costruiti ad hoc in zone ritenute meno pericolose di altre. Senza una struttura adeguata vicina, tutti i ragazzi dei villaggi coinvolti sono costretti a percorrere a piedi ogni giorno lunghissime distanze, con il rischio di ricevere una pallottola durante il tragitto. «Questa occupazione prende di mira tutto: prende di mira le nostre case, l’istruzione, la nostra acqua, i pannelli solari. Pensano che questo spingerà le persone ad andarsene, in modo che Israele possa “pulire” etnicamente questa zona», hanno spigato ad Al-Jazeera gli esponenti del comitato per la protezione e la resilienza di Masafer Yatta. Molte famiglie infatti vivevano in questa zona ancora prima dell’occupazione israeliana della Cisgiordania del 1967, ma con il tempo le forze israeliane hanno reso la loro permanenza un inferno: gli hanno tolto l’acqua, la corrente elettrica, li hanno circondati con insediamenti israeliani illegali e li sottopongono a sistematiche violenze.

Secondo l’ONU, tra l’altro, il 2022 è da considerare uno degli anni più mortali per i palestinesi dal 2005, da quando cioè l’organizzazione ha iniziato a tenere conto delle vittime. I dati, quelli ufficiali, dicono che da gennaio nella Cisgiordania occupata sono morte almeno 120 persone, di cui un quinto sono bambini, per via dell’aumento dei raid militari israeliani. Molti di loro sono stati uccisi durante perquisizioni e arresti, giustificati dalle forze israeliane come operazioni portate avanti contro sospetti “terroristi”.

Studiosi e attivisti per i diritti umani, sia palestinesi che israeliani, sostengono che l’obiettivo reale di Israele sia chiaramente lo sgombero dei residenti arabi, col fine ultimo di perseguire e rafforzare la sua presenza nei loro territori, nonostante “l’espansione degli insediamenti, le demolizioni e gli sfratti sono illegali secondo il diritto internazionale”.

Ad oggi, però, le testimonianze palestinesi (sostenute da filmati aerei, foto, documenti) non sembrano bastare ad una comunità mondiale che continua a riempirsi la bocca di parole, ma che nel concreto sostiene ancora una nazione che perpetua violenze ai danni di un’intera comunità. D’altronde, come si fa a chiedere a qualcuno di accorgersi di qualcosa se di fondo non vuole vederla?

 

 

fonti: il manifesto e l’indipendente

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