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La legalità del male

Jessica ha 20 anni. Mentre molti suoi coetanei consumano le proprie serate nei localini, Jessica alleva i bambini delle famiglie indigenti che insieme a lei hanno occupato locali abbandonati per farne la propria casa. Come in tutti gli edifici del mondo, capita spesso che nel bel mezzo delle riunioni tra condomini volino parolacce e pure qualche schiaffo. Jessica interviene a fare da paciera e nel tentativo di sedare le risse ogni tanto si becca delle manate nel muso.

Simone studia all’università. Proviene da una famiglia cattolica. Pur essendosi allontanato dalla fede, interpreta alla lettera il vangelo. Invece di passeggiare sbavando davanti alle griffe esposte in qualche vetrina del corso, assiste i senzatetto, li accompagna per cercare una stanza da prendere in affitto col contributo comunale, sostiene la loro lotta per il diritto ad avere una casa.

Amerigo è un ragazzone generosissimo e sempre allegro, svolge mille lavori per campare, Carmelo un sindacalista di base, uno vecchia maniera, sempre pronto a difendere i diritti delle colleghe e dei colleghi. Ferdinando sta per diventare avvocato. Possiede rare virtù: parla e capisce tutti i linguaggi, è coraggioso ma non ama farsi pubblicità. Soprattutto, ascolta.

Jessica e Simone, come Amerigo, Ferdinando, Carmelo e gli altri attivisti del comitato Prendocasa, da anni vanno in giro per le strade della città urlando a squarciagola i cognomi delle onnipotenti famiglie politiche che gestiscono il malaffare nell’assegnazione degli alloggi popolari. Per la procura della Repubblica e la digos di Cosenza, gli attivisti di Prendocasa sono “delinquenti”, colpevoli di avere occupato quattro o cinque edifici abbandonati dove adesso abitano centinaia di cosentini e di migranti. Con l’accusa di associazione a delinquere, poliziotti e PM hanno chiesto il loro arresto. Stavolta, forse memore della figuraccia galattica rimediata da questo tribunale 16 anni fa con l’operazione contro il Sud Ribelle, nessun GIP ha voluto firmare l’ordine d’arresto. Almeno per ora.

“Delinquere” significa commettere un delitto. Si possono definire “delinquenti” dei ragazzi che fanno del bene senza trarne alcun vantaggio, profitto o lucro? È giusto accusarli degli stessi reati imputati ai mafiosi? Dipende dal significato che si attribuisce al termine “bene”: un tempo lo mettevano in pratica anche le persone impegnate a combattere le ingiustizie sociali. Negli ultimi anni si è andata invece affermando l’idea che soltanto la carità, le collette solidali e la beneficenza siano atti di “bene”. Invece chiunque si riappropri in pubblico, megafono alla mano, di ciò che è negato a milioni di donne e uomini, è visto come un disadattato, un potenziale terrorista oppure, nella meno perfida delle ipotesi, come un “buonista”. È chiaro che c’è una bella differenza tra conflitto sociale e beneficenza. Lo sanno anche le autorità costituite per le quali l’obiettivo reale non è il contrasto dell’illegalità. Magistrati e poliziotti sono impegnati a cancellare l’idea stessa che attraverso un uso ragionato e collettivo della forza si possa ottenere quel che il nostro sistema vieta a milioni di persone: la dignità. L’autonomia è l’ideale messo in pratica dal comitato Prendocasa. L’autonomia è l’esatto contrario della dipendenza, e il sistema in cui viviamo si regge proprio sulla schiavitù della dipendenza. Chiunque la metta in discussione, rappresenta una minaccia. Procuratori e poliziotti sono al servizio di una legalità apparente, posta a difesa degli interessi dei ricchi. La stessa “legalità” ignora i malandrini che, pistole in pugno, sgomberano vecchietti inermi dalle case popolari per accaparrarsele, e che agiscono con l’appoggio di amministratori pubblici. A Cosenza lo hanno fatto tantissime volte. La procura e i poliziotti lo sanno, ma in quei casi non hanno mai ipotizzato il reato di associazione a delinquere, perché l’abuso malavitoso fa parte del sistema. In quanto tale, va tollerato, ogni tanto censurato purché con dolcezza. Succede la stessa cosa quando interi stabili privati, di proprietà di “amici”, sono presi in affitto dal Comune, dalla Regione, dall’Asp, a costi esorbitanti, per ospitare uffici e attività pressoché inesistenti. Anche in quel caso si tratta di delinquenza pura, istituzionale. Ma alla polizia e alla procura non interessa: fa tutto parte del “sistema” su cui si reggono i ricchi della città: rendita fondiaria, affittacamere, speculazione edilizia. La digos si limita dunque a fare il suo mestiere. È chiaro che irrita quando inventa episodi mai accaduti: attribuisce le responsabilità di una rissa a chi stava provando a sedarla, e ritaglia pezzi di intercettazioni per gettare fango su giovani attivisti che proprio in virtù delle loro azioni hanno conquistato una stima diffusa in città. In fondo la polizia politica svolge un antico lavoro, impiega la forza pubblica e la legalità a fin di male. È lo stesso lavoro svolto a Torre Melissa, valle Giulia, piazza Fontana, Genova 2001, quello della gente investita con le camionette, caricata senza pietà, manganellata o sparata a bruciapelo in oltre settant’anni di storia repubblicana. Non è nient’altro che la difesa dello status quo. Lo conferma l’impiego del reato associativo, un gomitolo giudiziario da cui è difficile districarsi, che unisce nel tempo il regime borbonico, quello fascista, il democristiano e i governi neoliberisti succedutisi negli ultimi due decenni. Nei prossimi giorni sarà curioso vedere come su quest’ennesima avventura repressiva si esprimeranno i politici cosentini, quelli indagati per abitudine e professione, che amano invocare il garantismo a corrente alternata.

Dal novembre 2002 ad oggi il mondo è cambiato, com’è giusto e naturale che sia. Eppure prevale la sensazione che da qualche parte sopravviva l’energia che tanti anni fa a Cosenza mise in ginocchio la nuova inquisizione. Soprattutto rimane viva la risata. Che ancora una volta li seppellirà.

Claudio Dionesalvi

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