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A Zarzis. Dinanzi alla condizione dei migranti in Libia

La frontiera tra la Tunisia e la Libia è una frontiera cruciale per le politiche di esternalizzazione e militarizzazione delle frontiere dell’Unione europea con il loro portato di morte e invivibilità.
E’, inoltre, una frontiera cardine nella realtà e nell’immaginario geopolitico: tra un territorio in guerra e un territorio in pace, tra uno stato frammentato negli infiniti rivoli di milizie territoriali a sostegno o in opposizione ai due eserciti ufficiali e uno stato unitario, tra un’anarchia in incessante conflitto e una debole democrazia rappresentativa con aspetti ancora e nuovamente dittatoriali, tra un disastro post-rivoluzionario e post-bellico attraversato da una condizione di guerra permanente e diffusa e una “rivoluzione riuscita”, se non altro nel compito di rovesciare la dittatura e dare avvio a una fase di costruzione democratica.

Dal mese di aprile di quest’anno, inoltre, dopo l’inizio dell’offensiva del generale Haftar contro il governo di Al Sarraj, riconosciuto da una parte della comunità internazionale, mentre dalla Libia arrivano notizie sempre più disastrose – ultima quella dei migranti nel centro di detenzione di Tajoura bombardati dalle truppe di Haftar e bersagli delle milizie alleate di Al Serraj dopo il bombardamento – la frontiera terrestre con la Tunisia sta diventando giorno dopo giorno una delle vie di fuga più praticate, per quanto la Tunisia non riconosca alcuno status ai migranti che arrivano sul suo territorio.

Così, quei luoghi tunisini di frontiera, al di là dei quali inizia una condizione di guerra diffusa e insieme la mostruosità per la condizione dei migranti voluta e accortamente costruita dalle necropolitiche dell’Unione europea, negli ultimi mesi sono sempre più investiti in vari modi da questa stessa mostruosità. Alcuni esempi: nel mese di giugno, una nave commerciale egiziana con a bordo 75 migranti soccorsi nel Mediterraneo non lasciata attraccare per 18 giorni; all’inizio di luglio, corpi di cadaveri ritrovati su alcune delle spiagge più turistiche della zona, un tempo fotografate come immagini cartolina della Tunisia per la loro sabbia dorata sotto cui coprire la dittatura di Ben Ali; sindaci che rifiutano la sepoltura dei cadaveri o, al contrario, una piccola città, Bouchemma, che offre il suo cimitero come luogo di “accoglienza”; i pescatori di Zarzis che ostinatamente continuano a soccorre i naufraghi, nonostante la velata opposizione dello stato tunisino e la criminalizzazione da parte dello stato italiano; il governatorato di Medenine restio a continuare ad accogliere i migranti in fuga dalla Libia; dubbie prese di posizione da parte di associazioni di difesa dei diritti umani per affermare che la Tunisia non può essere un luogo di arrivo.

Tutto ciò, mentre l’Unione europea continua a finanziare i campi di concentramento libici e l’Italia, per confermare la sua politica dei porti chiusi, si industria a mobilitare anche il cielo, con radar, droni e aerei da pattugliamento, per promuovere l’immaginario di un territorio ermetico all’arrivo dei migranti attraverso il mare. Alla Tunisia, inoltre, tanto l’Unione europea quanto l’Italia, in primo luogo, ma anche altri stati membri, offrono finanziamenti, mezzi, persino ipotesi di aiuti in effettivi delle forze armate, affinché acconsenta a quello che da anni le si chiede: di trasformarsi in un grande campo di internamento per l’arrivo dei migranti che passano per la Libia, da cui gli stati europei potrebbero poi praticare le loro selezioni, inventando nuove categorie di non vulnerabilità e di benessere psico-fisico per legittimare l’avarizia costantemente dimostrata in materia di ricollocamenti.

A questa richiesta, lo stato tunisino continua ad opporsi, seguendo però come modalità di contrasto il dettato della democratica Europa, scesa in campo da decenni, ormai, contro i corpi dei migranti. E’ un’opposizione che si pratica, dunque, ancora una volta, sulle condizioni di vivibilità dei migranti: nessun riconoscimento di uno status ai rifugiati, la concessione all’Unhcr di poter praticare una serrata selezione dei possibili richiedenti asilo da porre sotto sua tutela in vista di pochi e lentissimi ricollocamenti, nessun riconoscimento di un titolo di soggiorno, e un breve periodo di accoglienza, molto breve e per dire il vero ben poco accogliente, per non tutti i migranti in arrivo dalla Libia. Da aggiungere: qualche arresto qua e là, qualche detenzione nei luoghi previsti per i migranti arrestati, e, forse, come anni fa, ma non più documentate, alcune deportazioni verso l’Algeria, oltre ad alcuni testimoniati respingimenti alla frontiera libica. Il risultato: migranti che vivacchiano inventando le loro strategie di sopravvivenza, alcuni che riescono a inserirsi in un precario mercato del lavoro, esile, saltuario e di grande sfruttamento per gli stessi tunisini, l’emergere di tanto in tanto di racconti di semi-schiavitù, e, evidentemente, l’inevitabile rapida riorganizzazione di un business delle partenze dalle coste tunisine, non più per i soli tunisini ma anche per i migranti fuggiti dalla Libia.

Dalla sponda nord del Mediterraneo, nel frattempo, si guarda il mare, perché oltre all’ormai decennale spettacolo dei naufraghi, sopravvissuti e morti, ultimamente offre anche lo spettacolo più affascinante di capitane e donne coraggiose, eroine europee in ribellione contro le politiche di morte dell’Unione europea e dei suoi stati membri, in primis l’Italia con rigurgiti di ordini dittatoriali e sovversivi rispetto alle norme internazionali e costituzionali, provenienti dal ventre dello stato e in particolare dal ministero dell’interno. Eroine della vita, bianche, privilegiate e con il passaporto giusto – come secondo alcuni virgolettati Carola Rackete avrebbe decritto se stessa – che tra le acque del Mediterraneo oppongono vite salvate a vite annegate. E su cui si imbastiscono, così, quelli che in base allo spettacolo diventano gli unici gesti e gli unici racconti delle azioni di opposizione che il movimento antirazzista europeo avrebbe saputo escogitare in questi anni: chiudersi nell’imbuto del Mediterraneo dove necessariamente alla morte si può contrappone solo la vita, o meglio, la sopravvivenza, attraverso una mano che salva alcune decine di naufraghi grazie all’aiuto di centinaia di migliaia di euro raccolti da diverse forme di crowdfunding che permettono a ciascun donatore, con la somma di denaro giusta da non compromettere in nulla le sue abitudini di vita, di sentirsi parte di tali azioni di salvazione. Così, dall’Europa cattiva sorge l’Europa buona, coraggiosa, altruista, femminista, portatrice e donatrice di vita e umanità proprio lì dove l’Europa cattiva e prevalentemente maschia aveva costruito e seminato morte e disumanità.

Ma è una scena limitata. O meglio, è la stessa scena delle politiche migratorie dell’Ue, semplicemente rovesciata. Da una parte si produce morte e dall’altra si cerca di salvare, nello stesso luogo di quella produzione, e ci si ostina a pensare che si salva di più se si è di più, si fanno calcoli sulle percentuali di morti e si mettono in rapporto con la presenza o l’assenza delle “Ong della salvezza”, rischiando di dimenticare che una vita è una vita e una morte è una vita che non c’è più, proprio quella che si pensa di salvare, e non una percentuale. E’ la stessa scena delle politiche migratorie dell’Ue, rovesciata di segno, ma che accetta i limiti tracciati da quelle politiche: l’acqua, come se il Mediterraneo fosse la via inevitabile di quei corpi per preservare la loro vita; che accetta e rischia di contribuire a far accettare i limiti tracciati da quelle politiche, chiudendo lo scenario con un colpo di scena, non più solo il dramma ma anche, qua e là, qualche lieto fine, esempi per cui lottare, da sostenere, in cui riconoscersi e in cui respirare un’aria di potenza e di azione al posto dello sconforto della morte a cui lo spettacolo del Mediterraneo ci aveva ormai abituati. Esempi da sostenere, perché dicono “vita” lì dove i poteri dicono e praticano morte, e dal momento che il lieto fine piace di più del dramma e della sconsolatezza della morte può capitare che persino le istituzioni produttrici di morte esaltino le eroine della vita. E’ capitato, così, che un’altra donna, candidata e poi eletta presidente della Commissione europea, nel suo discorso programmatico al Parlamento di Strasburgo ricordasse alla platea che salvare vite umane nel Mediterraneo “è un dovere”, quelle stesse vite per le quali ormai da lunghi anni, riunione dopo riunione, decisione dopo decisione, proprio la Commissione non prevede alcun’altra possibilità di raggiungere l’Europa se non in quanto corpi sopravvissuti alla traversata del Mediterraneo. Forse, scopriamo ora, per poter esercitare o lasciar esercitare ai propri cittadini e alle proprie cittadine con il passaporto giusto il proprio dovere.

Non sono mancate, poi, delle ambiguità più sottili, e paradossalmente proprio in uno di quei luoghi istituzionali dove i vertici di alcune istituzioni cercano di opporsi ai vertici di altre: città contro stati. Un conflitto istituzionale interessante, comunque, e che potrebbe portare a forme di organizzazione diverse contro quelle criminal-democrazie in cui, per quanto riguarda le politiche migratorie soprattutto, si sono trasformati gli stati membri dell’Ue. Eppure. Uomini bianchi salvano donne scure da uomini scuri, era, a detta della filosofa postcoloniale Gayatri Chakravorty Spivak, la scena per eccellenza di legittimazione delle politiche di conquista coloniale; donne bianche salvano uomini, donne, bambine e bambini scuri da uomini bianchi è invece la scena attuale, in cui il retaggio coloniale rischia di restare marchiato sul fondo della scena non solo, e forse troppo banalmente, dal bianco di chi salva, ma per l’ambiguità dell’effetto di eroismo che la scena di salvazione irradia attorno a sé. E’ capitato, così, che la città di Parigi riconoscesse la massima onorificenza alle due capitane Carola Rackete e a Pia Klemp, entrambe indagate in Italia per il reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina per le loro azioni di soccorso in mare, entrambe descritte invece dalla municipalità di Parigi come “simboli della lotta quotidiana per salvare i migranti” e come “due donne portatrici di valori che la città di Parigi difende”. Il giorno dopo il riconoscimento dell’onorificenza alle due eroine europee portatrici di valori, comunque, nella città ricominciava il solito tran tran dei valori disconosciuti e mentre un movimento di “sans-papier, senza voce e senza volto per la repubblica francese”, come si legge nel comunicato del movimento, occupava il Pantheon, qualcuno dava l’ordine di caricare quelle donne e quegli uomini dai volti neri, svantaggiati e con il passaporto sbagliato, portatori e portatrici, evidentemente, di pretese in contrasto con i valori da difendere.

Ora, provare ad allargare lo sguardo, non solo nelle analisi più o meno accademiche delle politiche migratorie, ma anche nelle pratiche di contestazione della loro forza di distruzione è diventato un gesto di estrema necessità, ineludibile se non si vuole essere trascinati dalla loro valanga distruttiva, capace di disegnare con precisione i limiti della scena di contestazione e, di conseguenza, la sua inevitabile vanità.
Proviamo a partire dalla terra, allora, e non dal mare, ultimo tratto dell’imbuto disegnato da quella valanga dove ostinandosi a salvare si rischia tutti di annegare. E se si prova a partire dalla terra ci si trova su quella frontiera cruciale che i migranti in fuga dai campi ufficiali e ufficiosi, dalle torture e dagli stupri, dalle estorsioni o dalla riduzione in schiavitù in Libia, cominciano a praticare in misura sempre maggiore: 1008 nuovi arrivi dal gennaio 2019, secondo i dati relativi alla Tunisia forniti nel report di fine giugno da parte dell’Unhcr, 169 nel mese di giugno, per quanto, entrambi i dati, comprendano sia i migranti che attraversano la frontiera terrestre sia quelli soccorsi in mare e fatti sbarcare in Tunisia, come nel caso dei 75 migranti soccorsi dall’imbarcazione Maridive 601 e fatti scendere dopo giorni di attesa con il ricatto di acconsentire tutti al loro “rimpatrio volontario” nei paesi di origine.

Ritrovarsi su quella frontiera, o meglio, provare a riflettere su quella frontiera e non solo a descriverla, come ormai numerosi report, in varie forme, stanno facendo, potrebbe significare provare a ricostruire le proprie capacità di azione, necessariamente inventive e originali rispetto a quelle sperimentate dall’antirazzismo europeo sinora, prima dell’imbuto del Mediterraneo. Un imbuto dove, al di là dello spettacolo, si concentrano tutti i portati delle politiche migratorie europee: corpi naufraghi, necessariamente naufraghi, sommersi o salvati, a seconda delle scelte politiche dell’Ue e dei suoi stati membri rispetto agli interventi delle sue forze militari e delle sue agenzie di militarizzazione, esternalizzazione e securizzazione di quel tratto di mare, comunque unica via di fuga concessa ai migranti e dove, rispetto alla Libia, i migranti arrivano in base alle decisioni e alle capacità di organizzazione dei trafficanti e delle decisioni e delle capacità di organizzazione della guardia costiera libica, collusa con quest’ultimi.

Corpi naufraghi, necessariamente naufraghi, al di là della presenza o dell’assenza delle Ong. Due unici dati, su cui ragionare senza la retorica che accompagna le riflessioni partigiane di queste forze di salvezza e contro la loro criminalizzazione da parte dell’Ue e dei suoi stati membri, l’Italia in primo luogo, come sempre rispetto al Mediterraneo centrale.

Il primo. Correva l’anno 2016, quando le Ong presenti nel tratto di mare tra l’Italia e la Libia erano numerose, dieci in tutto, e i loro interventi, altrettanto numerosi, si coordinavano con il centro di soccorso dell’Italia, l’Mrcc del Comando generale della Guardia costiera a Roma, la Libia non aveva ancora dichiarato la sua zona di competenza Sar (Search and Rescue), e in quell’anno gli “arrivi/soccorsi” nel Mediterraneo centrale, secondo una terminologia dubbia in cui ogni arrivo viene catalogato come un soccorso, furono 178.415: 46.796 soccorsi dalle imbarcazioni delle Organizzazioni non governative. 4.579 i morti in quel tratto di mare, tra i 5143 morti nell’intero Mediterraneo in quell’anno, il 2,5 % in termini percentuali. Certo, nel frattempo molte cose sono mutate, sono mutati soprattutto il numero degli arrivi e delle percentuali dei morti: diminuiti i primi, anno dopo anno dal 2017, in seguito al Memorandum di intesa tra l’allora ministro dell’interno Minniti e il governo di Al Sarraj, e alle politiche dei porti chiusi di Salvini dall’estate 2018; aumentate in modo esponenziale le seconde. 13% la percentuale delle morti negli ultimi mesi, incrociando i dati degli arrivi forniti dal ministero dell’interno al 19 luglio 2019 (3191), e quelli delle morti nel Mediterraneo centrale secondo i dati dell’Oim (426), sempre aggiornati al 19 luglio del 2019. Nessun dubbio sul fatto che i dati vadano conosciuti e discussi, comprese le percentuali delle morti; indicando però le operazioni di soccorso indipendenti dagli stati come soluzioni necessarie, rischiando di contribuire a focalizzare il dibattito e l’intera attenzione mediatica su tale necessità, si rischia inevitabilmente di far apparire come altrettanto necessarie le morti, che siano fornite in valori assoluti o percentuali. Da luogo contestato, perché produttore di morte, unica via di mobilità che le politiche migratorie dell’Ue hanno via via designato in questi decenni per l’arrivo in Europa, il Mediterraneo diventa il vicolo cieco su cui si concentrano le maggiori forze di contestazione. Chi può salvare, lì, deve essere lasciato salvare, in una china discendente dei discorsi e degli immaginari di contestazione, in cui come decenni fa era avvenuto per le guerre si mettono in campo forze umanitarie e ci si batte per il loro riconoscimento, in una inevitabile collusione con lo status quo dei poteri egemonici, non più affrontati alla fonte, al contrario, impercettibilmente supportati nei loro effetti. Con una sola domanda, per quanto retorica: la capacità di azione politica rispetto alle migrazioni in opposizione alle politiche dell’Ue può avere come obiettivo quello di ritornare alla situazione del 2016?

Il secondo dato è relativo a questi ultimi mesi, quelli degli scontri ampiamente mediatizzati tra il ministro dell’interno italiano e le organizzazioni indipendenti, non solo le Ong ma anche la piattaforma Mediterranea, con i loro interventi di salvataggio e di ostinata indicazione e scelta dell’Italia come luogo e porto sicuro più vicino in cui portare i naufraghi soccorsi durante le loro operazioni, nonostante i decreti del governo italiano pensati su misura per impedire il loro operato. Secondo il dato del 9 luglio: a fronte dei 3128 migranti arrivati in Italia nei primi sei mesi del 2019, sono 248 quelli arrivati attraverso il soccorso delle Ong, 8% degli arrivi. Certo, ognuno di quegli arrivi ha una indubbia valenza simbolica, oltre che l’indiscutibile valenza reale di 248 persone salvate: anziché lasciar morire, si possono salvare vite, far vivere, proprio lì dove le politiche migratorie fanno morire, e lo si può fare rispettando le leggi internazionali e costituzionali, in opposizione alle leggi di uno stato. Leggi contro leggi, diritto contro diritto, è il significato massimamente politico di quelle vite salvate. Eppure, resta un dato parziale, con lo sguardo fisso lì dove proprio le politiche migratorie dell’Ue hanno imposto di fissarlo. Perché, accanto ai 3128 arrivi, alle 248 persone salvate dagli interventi indipendenti dagli stati, ci sono i 4.023 migranti partiti dalla Libia e riportati indietro dalla guardia costiera libica, i 5.600 rifugiati e migranti attualmente detenuti nei diversi centri ufficiali della Libia, secondo l’ultimo comunicato congiunto dell’Oim e dell’Unhcr dopo il bombardamento del centro di detenzione di Tajoura, e gli innumerevoli altri migranti detenuti nei centri ufficiosi, oltre a una situazione di schiavitù, di semi-schiavitù e di varie altre forme di invivibilità che caratterizzano, in generale, la situazione dei migranti in Libia.

In un tempo molto lontano, quando i venti di guerra spiravano sull’Europa balcanica, un debole movimento pacifista in via di organizzazione aveva abbozzato alcune azioni di interposizione pacifica, trovandosi poi travolto dall’assedio di Sarajevo, dagli spettri emaciati che apparivano tra i fili spinati dei nuovi campi di concentramento, dai costanti e silenziati stupri etnici, dalle devastazioni dei villaggi, dalle mine disseminate nei campi alle periferie di ogni città. Travolto, dalle inesauribili risoluzioni Onu disattese da tutti gli attori in scena, e dagli stessi caschi blu, incapaci di difendere alcunché, o addirittura complici del genocidio, come nel caso di Srebrenica, nel luglio del 1995. Travolto, però, in parte, anche dalla via che poi aveva preferito seguire, più semplice e meno rischiosa rispetto alle azioni iniziali: infinite carovane di aiuti umanitari alle popolazioni asserragliate dai combattimenti, spesso bloccati e requisiti dalle milizie dei signori della guerra, non lasciati passare, e usati da quelle stesse milizie per i propri effettivi o rivenduti sui banchi del mercato nero che per alcune realtà, come quella di Sarajevo, costituivano l’unica fonte di sostentamento delle popolazioni assediate. Lì, tra quell’ammasso di aiuti, l’utopia inziale si era incrinata.

Ma era stata un’intuizione a cui forse provare a ritornare. Certo, in misura ancora maggiore rispetto a quel tempo lontano, il ritorno a quell’intuizione è destinato a rimanere esclusivamente dell’ordine dell’utopia, dal momento che nella realtà di questi anni, dinanzi alle nuove forme di guerra che lambiscono l’Europa, e dinanzi a quella nuova forma di guerra, di detenzione, di concentramento, di sbarramento delle vie di mobilità che l’Europa pratica rispetto alle popolazioni in fuga da vari scenari di invivibilità, nessun movimento ha provato a immaginarsi in tali termini. Ma è una domanda da porre, e in modo impellente: come ricostruire forza d’azione, forza, dinanzi alle diverse forme di forza e di devastazione delle vite di stati diventati criminali con il consenso di parti sempre più consistenti delle loro popolazioni?
Ci sono momenti della storia, forse, in cui il peso distruttivo degli eventi grava sulle capacità di azione e di opposizione proprie di quegli esseri umani che ambirebbero a contrastarli, relegando quest’ultimi in un limbo di impotenza. Se è così, quello che stiamo vivendo è evidentemente uno di tali momenti. Dinanzi a un simile evento nel passato, Hannah Arendt faceva la seguente riflessione: rispetto ai crimini legati al “male radicale”, tutto ciò che sappiamo è di non poter né punire né perdonare tali crimini, che quindi trascendono il dominio delle cose umane e le potenzialità del potere umano, distruggendoli entrambi radicalmente ovunque compaiano (Vita Activa). E poi continuava: “forse l’affermazione più plausibile in favore dell’affermazione che perdonare e agire sono strettamente connessi come distruggere e fare (…)”, ribadendo così il legame tra perdono e azione che aveva illustrato sopra.
Non credo di essere d’accordo con Arendt, e in fondo non penso nemmeno che Arendt fosse del tutto d’accordo con se stessa, dal momento che questa affermazione è di qualche anno precedente alla sua “punizione” di Eichmann, nella magistrale lettera che compare alla fine della Banalità del male, dopo aver assistito al processo di Gerusalemme: Eichmann deve essere punito, e con la pena di morte, per i crimini contro l’umanità, una nuova forma di crimini che hanno fatto irruzione nella storia con i campi di concentramento e sterminio della Germania nazista e che intaccano la condizione di esistenza dell’umanità. Quella di Vita activa è però un’affermazione che tocca il punto dell’impotenza e cerca di indicarne i presupposti. Un’impotenza o un sentimento di impotenza così stringente in questi anni, con l’attuale assottigliarsi delle capacità di opposizione alle necropolitiche del nostro presente, la graduale riduzione dello spazio di azione politica in grado di intaccare i presupposti di tali politiche, con margini di agibilità e di rivendicazione sempre più esigui.

Tenendo a mente quella lontana intuizione e sapendo, comunque, che non ci sarà alcun “esercito pacifico della salvezza” capace di agire direttamente in quel territorio di guerra da cui arrivano immagini e racconti di vite schiacciate dalla mostruosità di una nuova violenza concentrazionaria, accuratamente orchestrata e organizzata dalle scelte dell’Unione europea, si potrebbero comunque inventare e abbozzare nuove “prove d’azione” a ridosso di quel territorio. Inventive, anche rispetto agli attori che potrebbero essere coinvolti, abbandonando definitivamente l’idea di un’Europa che salva, a partire dalla constatazione che, qualsiasi campagna di crowdfunding si voglia continuare a implementare, l’Europa buona che tende una mano in mare ha una possibilità estremamente limitata di non far morire. Abbandonando, di conseguenza, anche la scena eroica di pochi, o poche, che salvano, inevitabilmente, pochi e poche, mentre gli e le altre stanno a guardare e possibilmente a “donare”; o evitando almeno di concentrare tutte le proprie energie su quest’unica possibilità d’azione.

Ricordando che quella scena può essere guardata in altro modo, con uno sguardo meno miope e focalizzato unicamente sull’Europa, dal momento che la zona di svolgimento del dramma è infinitamente più ampia e ha un raggio di estensione che, per quanto escludendo dal proprio campo visivo i luoghi di origine dei migranti, dalla Libia passa per la Tunisia, e solo in seguito attraversa il Mediterraneo e l’Europa. Oltre ai migranti, quelli già fuggiti dalla Libia ma in forme diverse anche quelli catturati tra le maglie di quel territorio concentrazionario, potrebbero infatti contribuire all’invenzione di nuove “prove d’azione” attori e attrici stanziali, abitanti di quella zona, ma anch’essi, tutti, con passaporti sbagliati, svantaggiati, e non rientranti nella “bianchezza” razzista e coloniale che l’Europa continua a mobilitare come colore egemonico nella gerarchizzazione delle vite a livello globale.

Ci si ritroverebbe, allora, su quella frontiera cruciale, tra la Libia e la Tunisia, e nelle città tunisine segnate e attraversate da lungo tempo e in infiniti modi dalla loro vicinanza con quel luogo al confine. Chiedendosi “che fare?”, senza la presunzione di facili soluzioni, che irradiano immaginari di potenza solo occultando, però, per quanto non intenzionalmente, parti essenziali dello scenario del dramma.
Prove d’azione in uno spazio di frontiera” era il sottotitolo che come piccolo gruppo informale EuropeZarzisAfrique, costituitosi nel gennaio di quest’anno a Zarzis ragionando su cosa si potesse fare dinanzi alla condizione di assoluta mostruosità dei migranti in Libia, avevamo deciso di dare al primo appello con cui ci siamo presentati per indicare il periodo dall’1 al 5 agosto, a Zarzis, come momento di un primo appuntamento collettivo a partire dal quale provare a immaginare altre possibilità di azione. Prove, appunto, che hanno la debolezza di un inizio e nessuna proposta già confezionata con cui sovradeterminare ciò che riusciremo, o non riusciremo, a inventare.

Anche le righe di quest’articolo risentono di quella debolezza. Avrebbe dovuto essere, nell’intento iniziale, una breve “chiamata a Zarzis” e a contribuire anche economicamente ai progetti di sussistenza economica che discuteremo con i migranti fuggiti dalla Libia che si trovano già in quella città del Sud tunisino, ma è diventato qualcosa di completamente diverso e del tutto inefficace come “chiamata”. Potrebbe forse servire, però, come chiarimento di idee rispetto ad alcuni dei presupposti da cui siamo partiti.

Federica Sossi, 23 luglio 2019)

(Foto Monica Scafati)

P.S. Eppure, dopo la prima giornata passata a Zarzis e la visita a un “centro di accoglienza” immerso nel nulla dei campi di ulivi, resta ancora lo spazio per una “chiamata”. Con il contributo di molti, pari all’equivalente di un aperitivo, oltre al primo progetto di sussistenza economica che riusciremo a iniziare nei prossimi giorni, potrebbero partire anche con altri progetti. Certo, sempre poco, rispetto a quanto sta accadendo da una parte e dall’altra di questa frontiera; ma l’inizio di una piccola utopia che permetta ai migranti arrivati da queste parti di sottrarsi a quel nulla di un’accoglienza accanto alla quale qualcuno ha pensato bene di costruire pure il nuovo cimitero per coloro che qui arrivano in altro modo, sospinti dalle correnti che restituiscono i loro corpi sulle spiagge dorate.

Agire alla frontiera. Dinanzi alla condizione dei migranti in Libia (Progetti economici)

 

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