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Voglia di forca, senso comune e decisioni dei giudici.

Ormai il bersaglio mediatico privilegiato, il nemico pubblico numero uno non è più il clandestino, o il presunto scafista, ma il profugo che rifiuta di farsi bloccare nel paese di primo ingresso per il rilascio delle impronte digitali, da confinare in qualche Hot Spot, i nuovi centri di selezione e di trattenimento.

Da ultimo alla lista dei “nemici interni” si è aggiunto il presunto terrorista, meglio se siriano o libico, proveniente proprio da quei paesi nei quali il terrorismo ha seminato il maggior numero di vittime, costretto a seguire i canali dell’immigrazione irregolare, in assenza di vie legali di fuga, oppure costretto a tentare l’ingresso in Europa procurandosi documenti falsi.

L’interazione tra terrorismo e immigrazione irregolare, l’unico canale di accesso consentito ai profughi in fuga dalle guerre e dalla fame, costituisce ormai un tema dominante. Tutte le altre notizie che riguardano le migrazioni, dalle cause economiche e militari che le determinano alla triste sorte dei naufragati e dei dispersi, passano in sordina se non è possibile “agganciarle” ad arresti o a forme varie di detenzione e respingimento.

Quando a “fare notizia” è l’immigrato che, sottoposto ad una accusa infamante, dallo stupro al traffico di esseri umani, riesce a provare la estraneità ai fatti, allora entrano nel mirino dei difensori della patria italiana e dei suoi “sacri confini” anche giudici ed avvocati. Dopo i (pre)giudizi dei giornalisti si scatena la canea dei commenti, veri o falsi che siano, misura di un disumano che ci circonda ogni giorno di più.

I diritti fondamentali riconosciuti dalla Costituzione, le regole e le garanzie dello stato di diritto sono presto travolti dall’ignoranza di chi invoca la legge del taglione ed una giustizia sommaria. Ma al di là dei commenti e delle posizioni più becere, ci sono risposte politiche e giudiziarie che non depongono per il futuro della nostra democrazia.

Le misure antiterrorismo nei confronti degli stranieri, un nuovo diritto “speciale” che si invoca a gran voce dopo ogni attentato, costituiscono un attacco alla presunzione di innocenza, al diritto ad un equo processo, alla libertà di espressione e di associazione, e infine al diritto di asilo ed al principio di legalità nella disciplina della condizione giuridica dello straniero, ancora affermato dall’art. 10 della Costituzione repubblicana. Ad ogni attacco terroristico segue un inasprimento del quadro sanzionatorio, senza neppure interrogarsi sull’efficacia delle misure repressive adottate negli anni, annunciate ogni volta come risolutive della questione, almeno sul piano della sicurezza interna.

Tra le richieste che si ritiene necessario soddisfare per tranquillizzare una popolazione sempre più allarmata, si colloca al primo posto la rapidità e la severità della sanzione penale, con poco spazio per quei diritti fondamentali che vengono considerati come un ostacolo all’accertamento dei fatti. Sembra scomparsa la capacità aggregante dei movimenti attorno alle grandi battaglie politiche e sociali che hanno difeso la democrazia ai tempi del terrorismo interno.

Sulla piazza mediatica, l’unica che sembrerebbe davvero frequentata è una continua rincorsa verso le posizioni più estreme contro gli ultimi arrivati, come se le minacce alla sicurezza potessero provenire soltanto da loro.

Gli attacchi ai giudici indipendenti ed agli avvocati che difendono i diritti umani si succedono con una cadenza impressionante in tutta Italia, e sono ripresi dai social, così attenti a bloccare chi diffonde immagini di vittime di bombardamenti disumani, ma tanto tolleranti verso chi incita alla violenza in nome di aberranti ideologie razziste o apertamente nazi-fasciste.

L’ultimo episodio si è registrato a Caltanissetta, dopo la scarcerazione di un presunto stupratore straniero, risultato completamente estraneo ai fatti. Gli attacchi verso i giudici che ne hanno deciso la liberazione e gli avvocati che hanno svolto il ruolo di difensori sono presto arrivati, nei commenti più esasperati, ad invocare la impiccagione, la castrazione o lo stupro ai danni di chi aveva soltanto applicato la legge, nel rispetto dei propri ruoli e delle garanzie dettate dalla Costituzione.

Altre volte il linguaggio degli attacchi a chi difende i diritti dei migranti è più sottile, ma non per questo meno pericoloso. Assume i caratteri della cronaca che aggredisce i giudici che, applicando le regole dello stato di diritto, restituiscono la libertà ad imputati che risultano estranei ai fatti loro contestati, e agli avvocati che difendono chi si ritrova coinvolto in procedimenti penali per reati che prevedono condanne durissime, fino all’ergastolo, senza riuscire a capire neppure come sia potuto succedere. E non mancano dichiarazioni di altri magistrati che, amplificate dai media, potrebbero alimentare un pericoloso clima di scontro interno alle istituzioni con una generale caduta di fiducia nei confronti dell’intero sistema della giurisdizione.

Ogni indagine penale viene avviata coinvolgendo un numero di persone superiore a quelle che alla fine riceveranno una condanna definitiva, è nella logica di tutti i sistemi giuridici basati sulla presunzione di innocenza e sulla possibilità di esercitare effettivamente e non solo formalmente i diritti di difesa.

L’uso che si fa delle decisioni dei giudici delle indagini preliminari quando non corrispondono alle richieste delle procure, e talune reazioni che si sono registrate in questi ultimi tempi, anche sui mezzi di informazione, come se le decisioni di proscioglimento delegittimassero l’operato delle procure, denotano uno scadimento del ruolo dell’informazione e talora degli stessi rapporti tra istituzioni, che devono fare riflettere, se non preoccupare.

Secondo certa stampa, un “presunto” scafista rimesso in libertà non può che fuggire, così come farà immancabilmente chi venga rimesso a piede libero dopo essere stato arrestato per reati infamanti come coloro che si presumono colpevoli della morte delle persone che trasportavano, oppure implicati in attività definibili come terroristiche. Il clima generale che alcuni mezzi di informazione tendono ad accreditare è quello della “guerra interna“, i nemici “sono già tra noi”, la “convinzione ideologica” sembra parificabile ad un atto di terrorismo, soprattutto se tende al proselitismo.

Nella logica binaria amico-nemico si riducono anche le contraddizioni interne all’amministrazione della giustizia. Nel racconto quotidiano dei giornali si amplificano i dissidi tra diversi uffici di tribunale, e procure, con una cronaca che si schiera magari proprio dalla parte di chi chiede la pena più severa. In genere, soprattutto nel processo penale, sarebbe meglio non prendere posizione da una parte contro l’altra, meglio verificare con rigore e puntualità l’adempimento degli obblighi procedurali e il rispetto delle garanzie procedurali che dovrebbero dare senso alla frase “la legge è uguale per tutti” che campeggia nelle aule di tribunale. Quando quella frase sembra da buttare via, vuol dire che la nostra democrazia è fallita.

Su questa cultura “ufficiale” della criminalizzazione del diverso, del migrante, del profugo, e quindi dello scafista o da ultimo del presunto terrorista, con una escalation che sembra inarrestabile, una cultura diffusa dai mezzi di informazione, stimolata talvolta dalle dichiarazioni di politici e magistrati, tendente alla emarginazione di chi dovrebbe avere le stesse possibilità di esercitare i diritti di difesa e di tutelare la propria posizione personale, riconosciuta agli italiani, si gioca una partita che si potrebbe concludere presto con il superamento di quelle garanzie che la Costituzione italiana appresta a tutela di chiunque venga coinvolto in un processo penale.

E in Europa?

Gli atti di indirizzo che provengono da Bruxelles sollecitano sempre più spesso modifiche legislative da parte dei parlamenti nazionali. Si pone in termini drammatici il confronto tra le politiche della sicurezza indicate dall’Unione Europea, con atti peraltro privi di efficacia vincolante, e il dettato cogente delle norme costituzionali, in particolare di quelle che garantiscono i diritti fondamentali della persona (artt. 3,8,10,13,14,24).

Obiettivo dei terroristi è l’abbattimento dello stato di diritto e la dichiarazione dello stato di emergenza, perché queste scelte possono preludere a quella “guerra interna” ed a quella radicalizzazione delle posizioni politiche, e non solo religiose, che costituisce il vero obiettivo delle loro azioni più sanguinarie. Un obiettivo che in Francia sta per essere raggiunto con la sospensione della Convenzione Europea a salvaguardia dei diritti dell’Uomo, e con gravi modifiche costituzionali, e che in Italia passa, per ora, piuttosto che per effetto di scelte legislative, attraverso prassi delle autorità amministrative e decisioni degli organi giurisdizionali che relegano in una condizione di totale subordinazione gli interessi della persona migrante rispetto ai pretesi interessi di difesa della sicurezza e dei confini nazionali. In realtà l’art. 3 della Convenzione Europea che sancisce il divieto di tortura o di trattamenti inumani o degradanti, ha una portata più ampia di quanto non si ritenga generalmente e costituisce il discrimine tra lo stato di diritto e lo stato di polizia. La norma non appare certo derogabile da sospensioni temporanee del riconoscimento della Convenzione da parte di singoli stati.

Vanno peraltro verificate tutte le condizioni specifiche perché gli stati possano applicare misure derogatorie alla Convenzione europea a salvaguardia dei diritti dell’Uomo. Queste misure possono essere adottate solo in caso di guerra, o di un pericolo pubblico che minaccia la vita della nazione. Occorre inoltre rispettare i principi di trasparenza, proporzionalità e necessità per restare all’interno dei limiti consentiti dall’art. 15 comma 3 della CEDU.

Fino a quando le misure di deroga e sospensione non vengano adottate e notificate come prescrive la stessa Convenzione, tutte le autorità statali sono tenute a rispettare per intero i principi fondanti dello stato democratico sanciti nella CEDU ed in particolare gli art. 3 (Divieto di trattamenti inumani o degradanti), 5 (Diritto alla libertà personale), 6 (Diritto al giusto processo), 13 (Diritto di difesa). Si tratta di norme che costituiscono al contempo principi cogenti e chiavi di interpretazione e di applicazione del diritto interno. Eppure sembra che proprio quando si applicano questi principi le reazioni di certa opinione pubblica e di qualche settore della magistratura siano di disagio, se non di intolleranza vera e propria.

Succede così che magistrati indipendenti che esercitano la loro funzione giurisdizionale applicando soltanto la legge, senza piegarsi agli indirizzi di politica giudiziaria dettati dall’alto, vengano esposti al pubblico ludibrio, se non peggio, additati come obiettivi di vere e proprie spedizioni punitive. E sorte non dissimile tocca a qualche avvocato “di fiducia” che si è permesso di fare valere sino in fondo i diritti di difesa e che ha restituito una qualche funzione alla “presunzione di innocenza” ed ai diritti di difesa che sono ancora previsti nei nostri testi di legge.

Giudici indipendenti o pronti ad adeguarsi?

Quando si va contro i verdetti già scritti in anticipo sulle prime pagine dei giornali, si dà molto fastidio, non solo ai fascio-leghisti sempre più liberi di navigare in rete con le loro mitragliate che hanno come bersaglio comuni cittadini militanti dei diritti umani, avvocati indipendenti, magistrati coraggiosi che si limitano ad applicare le leggi. Si dà fastidio anche a chi vorrebbe tranquillizzare l’opinione pubblica sulla scorta di facili teoremi, da ripetere mille volte, fino a fare diventare un intero gruppo nazionale, da ultimo i siriani o i libici, sospetto o pericoloso. Non rimane molto tempo da perdere, ormai siamo su un pericoloso crinale, e potrebbe bastare un altro attacco terroristico, o una serie di gravi fatti di cronaca, a comportare il superamento di un punto di non ritorno verso l’abbandono delle pratiche e dei principi sanciti dalla carta costituzionale.

Se il legislatore, o la giurisprudenza, nei suoi gradi più alti, dovessero adeguarsi a questa deriva, come comincia a trapelare da recenti sentenze o da qualche progetto legislativo, si dovrebbe davvero costatare che il terrorismo sta vincendo la sua partita politica più importante. Perché sarebbe riuscito ad imporre il superamento delle garanzie dello stato democratico con una vera e propria “dichiarazione di guerra”, intesa come stato di eccezione permanente, da parte dello stato e di suoi rappresentanti, nei confronti di tutti coloro che non sono omologati e neppure omologabili nel diffuso senso comune, magari soltanto per la religione, poi forse anche per la provenienza nazionale o per il credo politico.

Per contrastare questo possibile “successo” del terrorismo, al quale potrebbe corrispondere una accresciuta capacità di mobilitazione, anche in Europa, occorre favorire inclusione e speranza di futuro, combattere le grandi e piccole ingiustizie che stanno isolando le comunità migranti, soprattutto nelle componenti più giovani, perché nell’emarginazione e nell’isolamento si possono celare pericoli molto più gravi di quelli che si pensa di esorcizzare con l’inasprimento dei controlli di frontiera e delle pratiche di identificazione dopo gli sbarchi attraverso il prelievo forzato delle impronte digitali.

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