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Se vince il controllo sociale. Intervista a Marina Garcés, docente di filosofia all’Universitat Oberta de Catalunya

Quando il capitalismo globale, che sembra un sistema onnipotente ma si fonda anche su grandi precarietà economiche e sociali, viene colpito da una patologia, non può fermarsi. Non può curarsi né curare le vite che ogni giorno sfrutta e depreda. Neppure quelle di coloro che ha lasciato ai margini, come le persone anziane. Più che la fragilità del sistema, quello che ci viene mostrato è la disuguaglianza e la violenza sociale su cui funziona la nostra normalità. Il controllo sociale sarà comunque probabilmente uno dei grandi vincitori di una pandemia che ha riportato alla luce in modo eclatante le disuguaglianze e le differenze di classe.

Marina Garcés è docente di filosofia all’Universitat Oberta de Catalunya. Ha scritto numerosi libri, ma in italiano è stato tradotto solo lo scorso anno “Il nuovo illumunismo radicale”, uscito per Nutrimenti. Partecipa anche a diversi progetti collettivi di sperimentazione pedagogica, culturale e sociale. Pensa che stiamo assistendo, nello stesso tempo, a due realtà contraddittorie: reti di appoggio mutuo e polizia dai balconi. Di fronte a questa situazione, ritiene che se vinceranno la paura e il sospetto tra i vicini di casa, avremo fatto un passo avanti verso una società autoritaria. Segnala anche che uno dei grandi beneficiari di questa pandemia sarà il controllo sociale, giustificato da una maggiore sicurezza per la cittadinanza nei confronti dei pericoli esterni.

Pensa che la crisi della Covid-19 abbia mostrato la fragilità del sistema?

Quello che ci mostra in una maniera molto cruda la crisi del Covid-19 è che il capitalismo globale, che sembra un sistema molto potente, si basa su grandi strati di precarietà economica, sociale, materiale, sanitaria…È una precarietà individuale e strutturale, perché riguarda anche lo stato in cui si trovano i servizi di assistenza pubblica in differenti paesi del mondo. È un sistema basato sull’attività e la crescita, ma quando viene colpito da una patologia non può fermarsi, non può curarsi né curare le vite che ogni giorno sfrutta e depreda. Neppure quelle di coloro che lasciato ai margini, come le persone anziane. Più che la fragilità del sistema, quello che ci viene mostrato è la disuguaglianza e la violenza sociale su cui funziona la nostra normalità.

L’allarme sanitario ha messo in evidenza la vulnerabilità umana?

Mi sorprende che ci sia tanta gente che ripete questa frase, dai filosofi ad Antonio Banderas. Mi domando che vita avessero e che realtà conoscessero quelli che fanno queste affermazioni. Non hanno persone anziane che dipendono da altri nelle loro famiglie? Non convivono con persone disabili o con disturbi mentali? Non conoscono la realtà altamente vulnerabile di molti quartieri e territori delle nostre città? Non soffrono l’impatto dei tumori e di altre patologie dovute a fattori ambientali e sociali? La vulnerabilità e l’interdipendenza esistevano già, ogni giorno, come realtà quotidiane per la maggior parte delle persone. Cosa ci impediva di vederle e di pensarci a partire da esse?

Esseri sociali come gli umani, possono vivere in questa situazione di confinamento per molto tempo?

Noi umani ci adattiamo a tutto, se abbiamo paura, e poi abbiamo già vissuto cose molto peggiori. Guerre, assedi, chiusure di massa. Ci sono settori della popolazione mondiale che li soffrono ogni giorno: nei campi di rifugiati, nei paesi in guerra, nei ghetti, nelle prigioni collettive… la storia ci mostra esempi continuamente. La socialità confinata non è certo una novità. La novità è la sua dimensione globale e generalizzata e poi il fatto che questa volta investe anche quelli di noi che hanno più diritto e accesso alla mobilità.

Negli ultimi giorni, abbiamo visto che si sono creati molti movimenti di cooperazione collettiva tra le persone che vivono nello stesso quartiere, però, dall’altra parte, c’è il distanziamento sociale che potrebbe farci diventare più individualisti…

Stiamo vedendo entrambe le cose: reti di mutuo sostegno e poliziotti di balcone. Ci sono persone che aiutano e persone che denunciano gli altri. Le condizioni attuali della vita tirano fuori il meglio e il peggio di quel possiamo arrivare a essere. Non dobbiamo solo prenderci cura di ognuno di noi e della sua salute, penso sia molto importante che ci prendiamo cura dell’ambiente generale in cui stiamo facendo questa esperienza, della rappresentazione che ne forniamo, degli immaginari che verranno fuori dall’essere stati confinati. Se vinceranno la paura e il sospetto tra i vicini, avremo fatto un passo in avanti verso una società autoritaria.

E per quanto riguarda i bambini, come può danneggiarli la reclusione in casa? E come torneranno alla normalità?

Lo dirò in modo chiaro: non capisco perché possano uscire i cani e non i bambini. Capisco che i genitori siano i primi interessati a prendersi cura di loro e, pertanto, a non esporli a rischi che non siano inevitabili. Penso che il confinamento sui bambini sia stato troppo drastico, tenendo conto che il periodo sarà lungo e che molti di loro vivono in appartamenti oscuri e molto angusti, privati dell’accesso alle risorse culturali e spesso senza vedere nemmeno un raggio di sole. Mi fa piacere che si siano levate voci contro questa situazione, che può avere un impatto emotivo e fisico su molti di quei bambini. Ci sono quelli che stanno vivendo una piccola “vacanza” con mamma e papà e ci sono quelli che sono finiti in veri inferni. Come si re-incontreranno? Penso sia utile domandarsi già ora come si possa fare dell’esperienza del confinamento un’esperienza condivisa.

Crede che i governi populisti, quelli che chiudono le frontiere e predicano le idee del “prima i nazionali” usciranno rafforzati da questa situazione?

Disgraziatamente penso di sì. Sia i populismi che le risposte classiste ed escludenti di ogni tipo. Questa crisi si aggiunge a quelle anteriori, come quella sul terrorismo e quella economica, e a quelle che seguiranno, come quella climatica. Sono crisi che vanno indebolendo il tessuto sociale e distanziando i gruppi umani e le classi sociali nella loro relazione con le aspettative e le possibilità di futuro condiviso. Di fronte a questo, è facile che ognuno si protegga dietro i suoi privilegi e percepisca gli altri come una minaccia. Non basta un piano di forte impatto sociale per affrontare i danni che provoca questa crisi, serve un lavoro critico che ci aiuti a comprendere in modo collettivo come siamo potuti arrivare a questo e come vogliamo uscirne in quanto società.

Pensa che per quel che riguarda la nostra protezione possiamo avere fiducia nelle istituzioni o no?

Questo bisogna vederlo paese per paese, ma per quel che riguarda la Spagna la fiducia nelle istituzioni sia sempre stata relativa, cosa che non mi sembra male, perché non sempre esse sono state in buone mani. Però dipende anche da cosa intendiamo per “istituzioni”. Una cosa sono i servizi pubblici come la sanità, l’educazione, l’assistenza sociale…che, in generale, sono stimati e sono molto apprezzati dall’insieme della società, fatta eccezione per coloro che non ne hanno bisogno e si occupano di disprezzarli. Altra cosa sono quelle che chiamiamo istituzioni politiche e che già da tempo mostrano la loro insufficienza al momento di fornire risposte all’altezza dei problemi del nostro tempo.

Questa crisi può far aumentare il controllo sociale sulla popolazione? Può accadere che, dopo tutto questo, determinate forme di controllo sociale, con la scusa del virus, diventino la normalità?

Sí, penso che il controllo sociale sarà uno dei grandi vincitori con questa pandemia. Se solo in cambio della geolocalizzazione o di un codice a barre bidimensionale o di altri dati ci lasceranno uscire di casa, chi è che non sarebbe disposto a farlo? La libertà dei movimenti, anche fossero controllati, nella nostra percezione ha maggior valore di molte altre libertà.

I controlli telematici dei movimenti attraverso il telefono, ad esempio, con la scusa della sicurezza nei confronti delle malattie, potrebbero raggiungere livelli pericolosi?

È da tempo che stiamo fornendo gratuitamente dati senza controllo. È molto difficile sapere come e quando lo facciamo, perché è una cosa non percettibile in modo diretto. Passa attraverso dispositivi e applicazioni di uso individuale, che sembrano moltiplicare le possibilità della nostra indipendenza, delle nostre comunicazioni, del nostro mondo privato. Perfino dei nostri segreti. Servono invece a privatizzare le nostre esperienze comuni e il loro rendimento economico, politico e ideologico…in mano a certe persone.

Il confinamento non è uguale per tutti. Questa crisi ha riportato alla luce anche differenze di classe?

Il classismo del confinamento mi pare una realtà sanguinosa. L’ho sostenuto in un programma alla televisione e ho ricevuto ogni tipo di insulti, come se avessi negato che il virus può uccidere anche gente influente o appartenente a classi sociali elevate. È chiaro che può farlo e lo fa. Però parliamo del confinamento, della gestione della crisi, delle conseguenze lavorative e sociali, dei metri quadrati dell’abitazione della regina Letizia o di quella dei suoi sudditi…Parliamo di chi deve uscire a fare certi lavori di pulizia o di cura, per esempio. Parliamo di lavoratori autonomi più precari, dei piccoli commerci, della cultura che sembra molto glamour ma da molti anni accumula solo debiti e precarietà. Parliamo dei migranti che sono rimasti fuori alle frontiere o con le documentazioni a metà. Parliamo di tutto questo. Mi domando cosa accade quando la crisi del coronavirus si abbatte su una realtà sociale già tanto maltrattata.

Che mondo possiamo immaginare al di là di quello apocalittico?

I racconti apocalittici sono ideologici, che siano in mano alla religione, alla politica o ai mezzi di comunicazione. Chi può mettere un punto finale alle nostre esistenze sta esercitando il suo potere. Pertanto i racconti apocalittici devono essere smascherati e contestati. A chi interessano? Chi ne viene beneficiato? Per rispondere alla domanda, tuttavia, bisogna anche dire che non bisogna auto-ingannarsi e sostenere che adesso finalmente abbiamo appreso il vero valore della vita. Se fosse così, lo avremmo appreso già nelle guerre o nelle crisi precedenti. Il valore della vita è lottare ogni giorno e sono le persone anonime più danneggiate quelle che non hanno mai smesso di farlo.

Come potremo risollevarci da tutto questo come individui e come società?

Risollevarci vuol dire continuare a vivere senza riprodurre quello che ci ha condotto a questo disastro. Sapremo farlo? Oppure vogliamo dimenticare di colpo tutto quel che abbiamo sofferto? Non dobbiamo drammatizzare ma nemmeno dimenticare. Altrimenti non avremo imparato nulla.

Intervista a cura di Èlia Pons

da: El diario de la educación

pubblicato in Italia anche da Comune-Info

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