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Usa: Leonard Peltier uscirà dal carcere.

In uno dei suoi ultimi atti da Presidente Biden ha commutato la condanna all’ergastolo di Leonard Peltier, l’attivista dell’American Indian Movement in prigione da quasi 50 anni. Peltier sconterà il resto della pena agli arresti domiciliari.

«Ho commutato la pena dell’ergastolo alla quale era stato condannato Leonard Peltier, concedendogli gli arresti domiciliari»: nell’ultimo giorno, nelle ultimissime ore della presidenza Biden, il comunicato della Casa bianca informa che l’attivista nativo statunitense lascerà il carcere Coleman 1 in Florida dove ha scontato 49 anni – sempre dichiarandosi innocente – per l’omicidio di due agenti della potente Fbi, dopo un processo molto dubbio. La executive clemency è finalmente arrivata. Non morirà dietro le sbarre.

Leonard torna a casa, alla Turtle Mountain. Un enorme sollievo per lui, per la sua famiglia, per la sua comunità e per i tantissimi, sconosciuti o noti, che nei decenni hanno seguito il suo caso, manifestato, mandato lettere postali ai presidenti, lanciato appelli. I difensori dell’attivista continueranno a lavorare per un’assoluzione totale.

Biden ha così motivato la decisione: “Nazioni tribali, premi Nobel per la pace, ex funzionari delle forze dell’ordine, decine di legislatori e organizzazioni per i diritti umani sostengono fermamente la concessione della clemenza al signor Peltier, citando la sua età avanzata, le sue malattie, i suoi stretti legami e la sua leadership nella comunità dei nativi americani e il notevole lasso di tempo che ha già trascorso in prigione”. Poi però ha tenuto a precisare, per non irritare oltremodo l’Fbi, che i crimini a lui addebitati non sono stati perdonati.

«Non c’è vera giustizia dopo 50 anni di carcere ingiusto, ma oggi i nostri cuori esultano di gioia e gratitudine», si legge nel comunicato dell’organizzazione dei nativi Ndn Collective che ringrazia «tutti quelli che, negli Usa e nel mondo, hanno lavorato per questo giorno e magari non hanno vissuto abbastanza a lungo per vederlo». Insieme all’esultanza, il ricordo di chi è ancora prigioniero e la promessa che l’impegno per i nativi continuerà.

Kathy Peltier, che non vedeva suo padre Leonard dall’inizio della pandemia di Covid, ha detto che ora la sua famiglia piange lacrime di gioia: “È un sollievo – ha detto – potremo abbracciarlo davvero, stare seduti per ore senza limiti di tempo e parlare. Ci sono così tante cose che lui si è perso”. L’avvocato Kevin Sharp, che ha sostenuto la libertà vigilata di Peltier ha dichiarato: “Il presidente Biden ha compiuto un enorme passo avanti verso la guarigione e la riconciliazione con il popolo nativo americano in questo paese. Ci sono voluti quasi 50 anni per riconoscere l’ingiustizia della condanna di Leonard Peltier e della sua lunga detenzione, ma con l’atto di clemenza del presidente, Leonard può finalmente tornare nella sua riserva e vivere i suoi giorni rimanenti”. La vicenda giudiziaria di Peltier è ormai arcinota, raccontata in svariati libri, film e pubblicata su un’infinità di media nazionali e internazionali.

Tutto ebbe inizio il 26 giugno 1975, a Pine Ridge, territorio degli Oglala Lakota, una delle riserve indiane più grandi e povere degli Stati uniti. Erano tempi di forti tensioni sociali e scontri, dove avvenivano continue aggressioni alle comunità indigene, soprattutto da parte dei Goon, cioè bande armate formate in parte da nativi stessi, assoldati dal governo statunitense per reprimere le lotte di rivendicazione dell’Aim. Quel giorno, senza alcun preavviso, irruppe nella riserva un’auto priva di targa con due uomini a bordo che diedero inizio a un conflitto armato. In seguito si scoprirà che erano due agenti dell’Fbi. La sparatoria che ne seguì fu caotica, lasciando a terra i due agenti e un nativo. Sul nativo nessuno si prese la briga di indagare, come avveniva regolarmente anche per la gran quantità di indigeni uccisi in quegli anni, ma per gli agenti morti qualcuno doveva pagare. In quanto attivista dell’Aim, l’allora 31enne Peltier, divenne il capro espiatorio perfetto.

Per comprendere il clima in cui si svolsero i fatti, in una precedente intervista Peltier aveva denunciato: “Sono stato minacciato con le pistole puntate in faccia quando ho cercato di filmare un blocco stradale di una squadra Goon; in un’altra occasione sono stato sbattuto contro un muro dai Goon, che tendevano a percepire l’intero corpo della stampa come simpatizzante dell’Aim. I freni della mia macchina furono tagliati e, in un’occasione, un fucile ad alta potenza fece un buco nell’automobile su cui stavo guidando. Ma le mie esperienze impallidiscono in confronto ai pestaggi, alle bombe incendiarie e alle sparatorie di quel periodo; almeno 28 omicidi di indiani rimangono ancora irrisolti e la tribù Oglala Sioux ha ripetutamente presentato petizioni al governo federale per riaprire questi casi”.

L’arresto di Peltier avvenne in Canada, il 6 febbraio successivo agli scontri di Pine Ridge, ma l’estradizione fu ottenuta con prove così fasulle che, in seguito, il governo canadese protestò formalmente per il modo truffaldino in cui era stata formulata. Nel 1976 Peltier fu condannato a due ergastoli, dopo un processo segnato da discriminazione e pregiudizio, dove venne accusato dell’omicidio dei due agenti dell’Fbi, Ronald A. Williams e Jack R. Coler. Nonostante un accurato rapporto balistico della stessa Fbi rivelasse che i proiettili non potevano essere stati sparati dall’arma del leader dell’Aim, il destino dell’imputato Lakota era già segnato.

Il processo infatti fu una farsa che ricalcò un copione già scritto, con prove inesistenti o costruite e testimonianze ritrattate. La giuria che condannò Peltier era composta esclusivamente da gente bianca, ma la cosa paradossale fu che i due coimputati nativi, accusati assieme a lui, vennero giudicati non colpevoli per motivi di legittima difesa. Nel 2003 i giudici del 10° Circuito dichiararono: “Gran parte del comportamento del governo nella riserva di Pine Ridge su quanto è accaduto a proposito del signor Peltier, è da condannare. Il governo ha trattenuto prove. Ha intimidito testimoni. Questi fatti sono incontestabili”.

Alla notizia della commutazione della pena a Peltier, Nick Tilsen, direttore esecutivo di Ndn Collective, un’organizzazione non-profit guidata dagli indigeni, ha affermato: “La liberazione di Leonard Peltier è la nostra liberazione: lo onoreremo riportandolo nella sua terra natale per vivere il resto dei suoi giorni circondato dai suoi cari, guarendo e ricollegandosi alla sua terra e alla sua cultura”.

Già in precedenza, altri due presidenti democratici come Clinton e Obama avrebbero potuto firmare il provvedimento, ma si sono rifiutati di farlo. Ora la detenzione domiciliare di Peltier somiglierà per molti versi alla condizione stessa dei popoli nativi nelle riserve.

Fossero ancora vivi, chissà se John Trudell e Robbie Robertson avrebbero dedicato a questo evento una nuova poesia o un’altra canzone. Dopo quasi mezzo secolo, bentornato a casa, caro Leonard.

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