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USA: Giovane donna arrestata per aver fumato marijuana da incinta

La 23enne Ashley Banks è una delle tante donne criminalizzate dalla legge che antepone la salute del feto a quella della madre.

di Giovanna Branca

Il 25 maggio la 23enne Ashley Banks stava guidando nella contea di Etowah, in Alabama, quando degli agenti di polizia l’hanno fermata per un controllo. Nella sua macchina sostengono di aver trovato un piccolo quantitativo di marijuana: in una situazione normale, Banks avrebbe potuto pagare la cauzione e tornare a casa in attesa di processo.

Ma quel giorno la ragazza ha ammesso ai poliziotti di aver fumato marijuana poco prima di scoprire di essere incinta da 6 settimane. Per questo, è rimasta vittima della prassi della contea: incarcerare le donne con problemi di dipendenza per tutelare la salute del feto. Una politica di per sé aberrante ma che nel caso di Banks raggiunge picchi surreali dato che la 23enne è potuta uscire dal carcere solo 3 mesi dopo, il 25 agosto, intrappolata in un paradosso stile Comma-22: per poter uscire su cauzione avrebbe dovuto completare un trattamento di riabilitazione, che le è stato rifiutato per ben due volte perché il suo consumo di marijuana non era qualificabile come dipendenza. I suoi avvocati hanno poi affermato che le forze dell’ordine hanno cercato di spingerla ad ammettere di avere una dipendenza per poter uscire dal carcere su cauzione.

La sua vicenda è emersa pochi giorni fa grazie a un’inchiesta della testata locale Al.com, che ha gettato una luce sulla criminalizzazione delle donne incinte nello stato del profondo sud Usa dove chi ha avuto un aborto spontaneo può venire incriminata e condannata fino a 99 anni di prigione se ha fatto uso di droga durante la gravidanza. Come scrive sul Guardian Moira Donegan, “allo scopo di tutelare l’entità superiore che è il feto, sostiene il movimento anti-scelta, è giustificabile, perfino necessario, rubare la libertà delle donne”, ritenute di “status” inferiore.

In prigione dove era obbligata a dormire per terra perché i letti della sua cella erano già occupati, Banks ha cominciato ad avere delle emorragie che hanno messo in pericolo la sua gravidanza già a alto rischio.

E il suo caso non è il solo: Al.com riporta anche la storia di Hali Burns, arrestata 6 giorni dopo la nascita del suo secondogenito: era stata trovata positiva agli oppiacei perché prendeva un farmaco prescritto proprio alle donne incinte con una dipendenza da queste droghe. In prigione per oltre due mesi, non le è stato neanche concesso di ricevere gli assorbenti e gli indumenti intimi che il marito le portava per far fronte alle perdite di sangue dovute al recente parto.

L’associazione no profit National Advocates for Pregnant Women definisce la conte di Etowah “il ground zero della nazione nella criminalizzazione della gravidanza”: negli ultimi dieci anni sono ben 150 le donne incappate in una persecuzione penale ai sensi dello statuto relativo alla “messa in pericolo di un minore con sostanze chimiche”, nato per tutelare i bambini nelle case trasformate in laboratori per la produzione di metanfetamina e presto strumentalizzato per criminalizzare le donne.

In tutto il Paese, le donne imprigionate per aver “messo a rischio” la salute del feto sono – secondo un report del Napw – 413 fra l’anno in cui è stata emanata sentenza che garantiva il diritto all’aborto Roe v.Wade (1973) e il 2005, e ben 1.300 solo fra il 2006 e il 2020. Una tendenza inevitabilmente destinata a crescere negli Stati uniti post Roe. “Sappiamo di stare per essere testimoni di un’accelerazione dei casi in cui delle persone incinte vengono criminalizzate”, ha detto a The Nation la coautrice del report Afsha Malik, che sottolinea come le cause della persecuzione non sono limitate al consumo di droga ma potrebbero anche derivare da una caduta dalle scale, la sieropositività, un parto fra le mura domestiche. O aver fumato un po’ di marijuana.

da il manifesto

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